Giorgio Gori: «Il Pd impari a parlare alle imprese del Nord. A Bergamo dopo di me spinte conservatrici»

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Conto e carta

difficile da pignorare

 


di
Simone Bianco

Il parlamentare europeo organizza con Bonaccini una giornata con Orsini e altri nomi di punta dell’industria:«Senza innovazione non possiamo recuperare competitività. Per l’Europa momento drammatico, bisogna ascoltare Draghi e decidere. Capisco Schlein, ma sul Jobs Act mi aspetto coerenza dal Pd»

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Alle porte dei 65 anni, Giorgio Gori esplora la sua nuova dimensione istituzionale da europarlamentare. Lontano da casa. «Per 10 anni sono andato in ufficio in bicicletta. A Bruxelles ci vengo in aereo, ci sto quattro giorni alla settimana. E vivo con il mio staff». Così, un po’ come uno studente fuorisede, in casa con la sua capo segreteria Cristiana Barca e il portavoce Francesco Alleva, in pratica tutto quello che si è portato dietro da Palazzo Frizzoni. «Ho deciso di tirare una riga piuttosto netta, è giusto così, per me e per chi è venuto dopo di me. Certo, se mi vengono chiesti suggerimenti li do volentieri, con Elena Carnevali mi sento spesso». La sindaca sarà tra i relatori di «Innovare per tornare a crescere», l’evento organizzato per oggi (sabato 22 febbraio) al KilometroRosso da Gori e da Stefano Bonaccini, altro europarlamentare e riferimento della corrente riformista del Pd, Energia Popolare.

Tra gli ospiti, avrete il presidente di Confindustria Emanuele Orsini e l’Ad di Renault, Luca De Meo. Cosa chiede l’industria alla politica europea oggi?
«Gli industriali hanno bisogno di sapere che c’è attenzione e interesse, cosa che non sempre è scontata. L’area riformista del Pd in questo senso vuole mandare un segnale. Perché, se non facciamo ripartire la crescita industriale di questo Paese, faticheremo molto a garantire il modello sociale che ci sta a cuore».




















































Quali preoccupazioni si captano dal mondo delle aziende?
«Primo tra tutti c’è il tema del costo dell’energia, insostenibile per ampi settori della nostra industria. E poi c’è la mancanza di prospettiva del governo Meloni. Parliamo di cifre: i 6 miliardi di cancellazione dell’Ace, cioè delle agevolazioni per chi reinvestiva gli utili in azienda, i 4 miliardi in meno per la decontribuzione sulle assunzioni al Sud, il taglio di 5,8 miliardi al fondo automotive. “Industria 5.0”, per la riqualificazione energetica, ha ricevuto richieste solo per 500 milioni su 6,3 miliardi, anche per assurde complicazioni burocratiche. Dopodiché il problema di competitività è europeo, senza dubbio. Da fine anni 90 a oggi, il divario nella crescita con Cina e Usa è del 40% e l’intelligenza artificiale rischia ora di ampliarlo».

È il tema del rapporto sviluppato dall’ex premier Mario Draghi a settembre. In 5 mesi non ha originato niente e in questi giorni Draghi è tornato all’Europarlamento per dirvi: “Fate qualcosa”.
«Questo succede perché l’UE resta una creatura incompleta, fondata su organismi di cui due su tre – il Consiglio e la Commissione – rappresentano i governi nazionali. Sulle questioni decisive per il nostro futuro, difesa, politica estera, fisco, bilancio, le riforme sono possibili solo all’unanimità. L’unanimità non c’è e quindi non si fa nulla. Draghi dice: siete contro il mercato unico, l’unione bancaria, il debito comune, ma non potete dire no a tutto, perché ogni giorno che passa la competitività dell’Europa cala».

Draghi ha fatto un richiamo particolare agli investimenti privati, che sono fermi. Cosa frena le aziende?
«In Europa abbiamo tante borse diverse, i fondi pensionistici non prevedono quote con tassi di rischio alti e poi manca una quota di investimento pubblico che faccia da leva. Quando Draghi parla di 800 miliardi l’anno di investimenti necessari, prevede una quota di 200 miliardi pubblici. Ma oggi i fondi dell’UE indirizzati agli investimenti sono molto sottodotati».

Come influisce invece uno scenario internazionale così incerto sull’industria?
«Oltre al costo dell’energia, le nostre aziende pagano il calo forte della produzione tedesca e la grande instabilità generale. C’è la minaccia dei dazi che, purtroppo, si sta concretizzando. Ma quella che noi vogliamo fare al KilometroRosso non è una giornata sullo stato di salute delle imprese. Vogliamo anche provare a tracciare traiettorie per il futuro. Nel titolo c’è già un po’ di risposta alla domanda: il punto è l’innovazione, siamo convinti che quella che potrebbe diventare la “killer application” a danno dell’Europa, cioè l’intelligenza artificiale, sia in realtà l’occasione per recuperare terreno su Usa e Cina. L’accessibilità a questi sistemi sta crescendo, i prezzi sono calati drasticamente e l’applicazione dell’AI può dare aiuto anche alle piccole e medie imprese».

Nemmeno sui temi di politica estera, sulle guerre, l’Europa riesce ad avere una posizione unitaria. Un problema che ha anche il centrosinistra, proprio ieri lei ha attaccato Giuseppe Conte per le sue parole su Trump.
«Siamo di fronte a una situazione molto difficile, Trump sta facendo ciò che aveva annunciato in campagna elettorale e la debolezza dell’Europa emerge in tutta la sua evidenza. Giorgia Meloni coltiva una relazione preferenziale con il presidente americano, poi magari parla di debito comune in Europa. Quindi fa bene Schlein a dire: serve chiarezza, o con l’Ue o con Trump. La posizione di Meloni è ambigua, invece è nettamente pro Russia quella di alcuni paesi come l’Ungheria. Non so come finirà con Putin, che vorrebbe un’Europa indifesa ai suoi confini, ma è disarmante che di fronte alla gravità di questi eventi non ci sia un’adeguata reazione».

Al KilometroRosso, oltre a diversi esponenti riformisti, ci saranno figure del Pd di aree diverse, come Antonio Misiani e Andrea Orlando. Che segnale è?
«Misiani è il responsabile della segreteria nazionale per l’economia, Orlando dell’industria, era giusto che ci fossero insieme a tanti altri. L’obiettivo di Energia Popolare è integrare l’offerta politica del Partito democratico aggiungendo temi che secondo noi sono essenziali. A maggior ragione nei territori del Nord Italia. Non è un caso che facciamo quest’iniziativa a Bergamo: la cultura d’impresa è la cultura del Nord».

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Al Pd la capacità di dialogare con il mondo delle imprese fin qui è mancata?
«A me sembra di sì e trovo che sia una mancanza da colmare. Non lo faremo in una giornata sola, ma è utile porre l’accento su queste urgenze. Perché poi le cose che a noi stanno a cuore, un modello in cui si possa offrire lavoro di qualità e sostenere chi è più in difficoltà, passa da qui. Dove i ceti più fragili sono in difficoltà, dagli Usa a pezzi di Europa, poi tendono a rifugiarsi nel voto ai partiti populisti. Le conseguenze non sono banali: vediamo cosa sta succedendo con Trump. La difesa della democrazia passa dalla capacità di garantire una crescita».

Questa apertura alle imprese sembra in conflitto con scelte come quella di Elly Schlein di sostenere il referendum contro il Jobs Act. Lei non la condivide?
«Non la condivido e mi aspetto che non la condivida la gran parte della “nomenclatura” del Pd, che quel provvedimento all’epoca l’aveva votato. Per una questione di coerenza, ma anche di merito. Non c’è una sola evidenza che il Jobs Act abbia aumentato le ineguaglianze nel mondo del lavoro. Anzi, ha favorito delle assunzioni. Comunque, capisco anche Elly Schlein, che dall’inizio su questo tema ha tenuto la stessa posizione».

Le manca fare il sindaco?
«Ho voltato pagina in modo deciso. Proprio perché il rischio di restare attaccato ai temi della città e impicciarsi di cose che giustamente competono a qualcun altro è elevato. Quindi, sono sempre disponibile per chiunque mi chieda un confronto, mi capita spesso di parlare con Elena Carnevali, ogni volta che ne ha piacere. Penso che fare il sindaco dopo un mandato di 10 anni consecutivi possa comportare qualche fastidio, perché vieni messo a confronto con chi ti ha preceduto, su tante cose. Anche per questo ho voluto lasciare il campo sgombro. E penso che questa giunta stia facendo bene».

Non è intervenuto nemmeno in vicende che si sono complicate parecchio, come i cambi di direzione alla Carrara e al Donizetti?
«Sulla Carrara mi prendo la mia parte di responsabilità. Sono tra quelli che avevano selezionato Martina Bagnoli, convinto che fosse la persona giusta e avendole ben spiegato il suo ruolo in quel modello di governance. E mi sono stupito che, appena lasciato il mio incarico, quel modello sia stato messo in discussione dalla stessa direttrice. Penso che la difficoltà oggettiva a gestire questo passaggio sia stata superata con una soluzione adeguata. Mi risulta che con l’attuale direttrice, Maria Luisa Pacelli, il clima sia molto positivo».

Sbaglia chi pensa che tutto sia tornato saldamente nelle mani del general manager Gianpietro Bonaldi?
«Non è così. Però quel modello è essenziale per il museo, che riceve i due terzi delle risorse dai privati. Si può fare la Carrara in un altro modo, anche senza general manager e sponsor, ma il Comune ci dovrebbe mettere molti soldi in più. Che non ha».

Il Donizetti perde molto dall’uscita di Francesco Micheli?
«Al Donizetti Francesco Micheli è rimasto 9 anni e i suoi meriti sono innegabili, ma è naturale che i cicli finiscano. La nomina di Riccardo Frizza ha il merito di dare continuità ma anche cambiamento, puntando su un’altra professionalità, di livello internazionale».

Nei casi Carrara e Donizetti l’impressione è stata che, cambiato il sindaco, sia mancata la figura capace di mediare e decidere. Senza Gori forse sono calate certe difese.
«Quelli che per 10 anni si erano dovuti ritirare in buon ordine di fronte all’evidenza che le cose andavano bene, nel momento in cui hanno avuto un varco l’hanno sfruttato. Sulla Carrara tutti hanno ritenuto di esprimere la verità che avevano in tasca, si sono riaffacciate istanze di pura conservazione, da destra e da sinistra. In questi casi, bisogna leggere e ascoltare tutti, ma poi bisogna decidere in autonomia».

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E lì è emersa una certa difficoltà della sindaca a reagire in tempi rapidi e con efficacia, soprattutto nella comunicazione.
«Ho capito, pora stèla, anche lei… arriva e si trova subito a gestire queste vicende. Bisognava darle il tempo di prendere le misure e mi sembra che ora le abbia prese».

Lei invece ha preso le misure alla vita da europarlamentare?
«La cosa per me difficile, ma lo sapevo da prima, è lavorare su progetti che, solo per essere accolti dai colleghi del gruppo, richiedono mesi. Ero abituato a decidere e passare all’attuazione in 5 minuti. Ma il lato positivo c’è e sta nella possibilità di conoscere ambiti completamente nuovi. Si impara molto».

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