Il Procuratore: «Da Milano a Prato, dai porti infiltrati a Roma e oltre, il pericolo di espansione è alto. Urge una DDA ad hoc e nuove norme per favorire il pentitismo». «Grazie alla contraffazione, mancato gettito di 5 miliardi di euro, il 2,5 % del totale delle entrate tributarie».
La mafia cinese allunga sempre di più i suoi tentacoli sull’Italia, con un salto di qualità che la vede alleata delle tradizionali mafie storiche, con la complicità di professionisti esperti in riciclaggio ed evasione fiscale. È questo l’allarme che un magistrato di punta nella lotta alla mafia, Luca Tescaroli, procuratore capo a Prato dal luglio 2024, alle prese con episodi gravi come incendi ad aziende, minacce di morte, sfruttamento sistematico di lavoratori, riciclaggio, lancia dialogando con il Corriere della Sera e chiedendo il rafforzamento degli organici delle forze di polizia e la costituzione di una Direzione Distrettuale Antimafia a Prato.
Secondo il Rapporto sulla Contraffazione in Italia 2023 dell’Osservatorio Nazionale sulla Contraffazione, il mercato del falso vale circa 15 miliardi di euro, causando la perdita di oltre 120.000 posti di lavoro. D’altronde oggi gli affari della mala cinese in Italia sono lievitati e, secondo un report dell’Interpol, soprattutto nel nord Italia, in quanto a gruppi più organizzati, la fanno da padrone gang come Green Dragon, Black Society e Red Sun, che da Milano hanno potuto espandere i propri confini anche in Austria, Francia e Svizzera. Integrandosi con le mafie di casa nostra grazie a una merce preziosissima: la possibilità di accedere ai mercati criminali, e non solo, cinesi. Un’evoluzione che ha portato i gruppi criminali cinesi, che secondo gli investigatori non si muovono come un vero e proprio monolite ma come «distinti gruppi criminali in grado di interagire tra loro», a stringere rapporti anche con la mafia di casa nostra.
Procuratore Tescaroli, da Nord a Sud del paese, dalla Milano della “Chinatown” a Prato, dai porti di La Spezia e Gioia Tauro fino a Roma e oltre, la capacità di interfacciarsi della mafia cinese coi nostri sodalizi criminali, su tutti con la camorra napoletana e la ‘ndrangheta calabrese, è emersa con forza negli ultimi anni: dopo quasi un anno di lavoro sul tema che idea si è fatto?
«La mafia cinese è un pericolo concreto e non da oggi. D’altronde già nelle carte del maxi-processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino entrava la pista del traffico di stupefacenti tra Bangkok-Roma-Palermo, il cui terminale in Thailandia veniva identificato nel cittadino cinese, detto appunto dai suoi sodali italiani “il cinese”, Koh Bak Kin. Una struttura che a cavallo degli anni 70 e 80 ha reso una fortuna al clan mafioso di Rosario Riccobono, smantellato, almeno nella sua dimensione transnazionale, dai mandati del pool del maxiprocesso. E se Koh Bak Kin era il terminale di Cosa Nostra in Thailandia, il “capo dei capi” di quella organizzazione con base in Thailandia era un altro cittadino cinese: Chang Chi Fu».
Oltre alla droga, c’è il mercato del falso: che ne pensa?
«Molto elevato a livello economico risulta essere il “costo” della contraffazione. Il giro d’affari di quella che viene definita “industria del falso” è stimato fra il 2 ed il 7 % dell’intero commercio mondiale e, per quanto riguarda il nostro Paese, uno studio del Censis quantifica il peso della contraffazione, in termini di mancato gettito, in oltre 5 miliardi di euro, pari al 2,5 % del totale delle entrate tributarie».
Lei ha potuto constatare l’interazione della mafia cinese con altre mafie?
«L’esperienza professionale mi ha consentito di verificare che la criminalità cinese ha conquistato spazio significativo e che ha rapporti con altre realtà criminali: con la ‘ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita. Ha la capacità di relazionarsi anche con esponenti di gruppi criminali albanesi. Inoltre è caratterizzata da forte omertà e assoggettamento all’interno e coltiva rapporti con appartenenti delle forze dell’ordine e delle istituzioni».
È vero che un colonnello dei carabinieri è stato arrestato per collusione con la realtà criminale imprenditoriale pratese?
«Purtroppo sì. La capacità di stringere rapporti corruttivi è elevata e tale meccanismo relazionale va vigilato con particolare attenzione».
Come opera in concreto la mafia cinese in Italia?
«Possiede un’alta capacità di movimentare denaro per sé e coopera con altri sodalizi. I criminali cinesi conquistano spazi e sono riconosciuti. Vengono accettati come partner qualificati. Esiste ad esempio un avanposto economico a Prato dove si sfrutta la forza lavoro con numeri importanti di lavoratori cinesi e pakistani che non sono regolari e privi di permesso di soggiorno. Questo genera un arricchimento illecito annientando la concorrenza con lo sfruttamento lavorativo, con persone che lavorano 12-16 ore al giorno, senza oneri ontributivi, 7 giorni su 7. Tutto questo diviene attraente per il tessile nostrano, con imprenditori italiani, griffe importanti e nomi altisonanti che non esitano a servirsi di questi “terzisti”».
Le risulta che gli imprenditori della mafia cinese arrivino persino a importare la materia prima?
«Assolutamente sì. L’mportazione di materia prima proviene dalla Cina attraverso i porti del Pireo (controllato da capitali cinesi, ndr), tramite porti slavi ed il porto di Gioia Tauro (anch’esso partecipato da capitali cinesi, ndr). Nel 2023 e nel primo semestre ’24 solo a Prato sono giunte merci per un valore dichiarato di 1,3 miliardi, e acquisti intraunionali per 10 miiardi e 678 mila euro».
Con quale schema vengono evase le tasse sull’importazione in Ue?
«Formalmente le merci sono trasferite in un paese europeo, l’Ungheria, e da lì nel resto dell’Ue grazie a società schermo che non pagano imposte perché operano in sospensione di imposta in quanto già parte dell’Unione, quindi avvalendosi del regime doganale 42 che prevede la sospensione dell’Iva. Questo comporta un gravissimo danno economico e fiscale».
Esiste poi il meccanismo delle imprese «apri e chiudi».
«La materia prima viene lavorata in evasione fiscale tramite appunto le imprese “apri e chiudi”: una volta indebitate con l’Erario vengono dismesse e create new company per iniziare nuova attività. Le raccolte finanziarie sonno indirizzate a banche clandestine, per poi essere drenate all’estero ripulendo il denaro. Il riciclaggio dei proventi si avvale del cosiddetto “chinese underground bank system” che sposta i soldi in Cina, anche con criptovalute, appoggiandosi a piattaforme europee e ubicate alle Seychelles. L’ordinante dei trasferimenti non appare, non si creano radici nel territorio italiano e i profitti non vengono reinvestiti: così la Cina fa provvista di capitali in euro».
Ma anche in realtà come Milano e altre città i cinesi aprono sempre nuovi esercizi…
«Certo, investono e riciclano anche qui grazie agli enormi proventi di cui dispongono e tramite interazioni con altri sodalizi criminali. Tale tipologia di criminalità è divenuta estremamente pericolosa, forse ancor più degli altri gruppi criminali stranieri come quelli albanesi e nigeriani, che fotografano il dinamismo della criminalità organizzata nel nostro Paese».
Anche tra i cinesi esistono i collaboratori di giustizia?
«Cominciano a esserci collaboratori di giustizia e testimoni cinesi che intraprendono la collaborazione, ma il paradosso è che la normativa in materia è prevista solo per i collaboratori italiani e questo aspetto dovrebbe essere rivisto: è importante far sapere che lo Stato è presente e protegge chi collabora con serietà. Diversamente senza “pentiti” cinesi sussiste il rischio che si rafforzi il rapporto con il mondo delle professioni: questi imprenditori cinesi sono figure con grandi disponibilità di contanti, centri scommesse, case di da gioco. Anche immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione con intimidazioni consistenti sono fenomeni frequenti. Di recente c’è stata poi una escalation con incendi, minacce, tentati omicidi e morti nell’area di maggiore presenza di tale comunità, vale a dire a Prato. Altre comunità significative sussistono anche a Milano e a Roma ».
Come entrano i cinesi clandestini in italia?
«Organizzano meccanismi di trasporto collettivi in più tratte, con rotte dalla Cina fino alla Slovenia e di qui in Italia su auto e altri mezzi. Arrivano anche anche con il visto truistico e, poi, restano illegalmente divenendo soggetti che sono punti di riferimento per uno sfruttamento intenso. Uno strumento al quale ricorriamo è la concessione del permesso di soggiorno per motivi di giustizia, recentemente introdotto dall’art. 18 comma 3 ter del Testo unico sull’immigrazione. C’è stata la proposta di due onorevoli di FdI, Chiara La Porta e Francesco Michelotti, per istituire una DDA a Prato, che mi sento di condividere. L’iniziativa potrebbe potenziare magistratura e forze dell’ordine».
Le intercettazioni in cinese sono più difficoltose?
«Sì, servono interpreti per le varie lingue e dialetti cinesi, abbiamo creato un albo di interpreti da più parti d’Italia e abbiamo avviato un progetto ambizioso teso a far ricorso all’uso della Intelligenza Artificiale per la traduzione simultanea dei vari idiomi, se ne sta occupando una azienda milanese. Vanno, poi, aggiornati i parametri di liquidazione degli interpreti: una sentenza della Corte Costituzionale ha ampliato i criteri per le liquidazioni a vacazione dei compensi. Altro problema è costituito dalla collusione tra appartenenti alle forze dell’ordine ed esponenti dell’imprenditoria cinese nell’area pratese, che appare esteso e che va monitorato efficacemente».
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