Medicina territoriale, dopo il Covid il sistema è ancora in crisi. E i lavori finanziati dal Pnrr sono in ritardo

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Sono passati cinque anni da quando il 20 febbraio 2020 a Codogno, in provincia di Lodi, è stato individuato il primo caso di Covid in Italia. L’inizio di un’emergenza che, certificano i dati dell’Istituto superiore di sanità, ha causato oltre 197mila morti. Tra ondate, varianti e vaccinazioni di massa, la sanità pubblica ha affrontato una crisi senza precedenti che ha messo in luce le fragilità del Ssn e in particolare della medicina territoriale. Complice anche il progressivo invecchiamento della popolazione e l’aumento di malattie croniche, è emersa la necessità di investire una parte dei fondi del Pnrr per costruire una rete di assistenza capillare. Ma a tre anni dall’avvio del Piano, con la scadenza di giugno 2026 sempre più vicina, i numeri mostrano che la maggior parte dei progetti ha accumulato un forte ritardo. L’ultima conferma arriva da un report della Cgil che monitora lo stato di attuazione della Missione Salute del Pnrr. Secondo il rapporto, dei circa 9mila progetti di cui è possibile monitorare l’iter, solo il 35% risulta concluso, mentre il 40,8% presenta ritardi.

Le Regioni più indietro sono tutte al Sud, spiega il rapporto. In particolare la maglia nera per quanto riguarda i ritardi nell’esecuzione dei lavori la detengono Molise, Sardegna e Calabria. Mentre Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Veneto sono le più virtuose. Particolarmente preoccupante è la situazione delle case di comunità, le strutture che dovranno fornire assistenza sanitaria continua grazie alla presenza, sette giorni su sette, dei medici di famiglia, anche per ridurre il ricorso inappropriato agli ospedali e ai pronto soccorso. Secondo il report Cgil – stilato elaborando i dati della piattaforma di monitoraggio ReGiS, predisposta dal ministero dell’Economia -, a dicembre 2024 erano stati spesi solo 261 milioni, circa il 10% dei fondi disponibili, “con ritardi evidenti e diffusi nell’esecuzione dei lavori per più della metà dei progetti”.

“Il ritardo c’è e deve essere risolto”, commenta a ilfattoquotidiano.it Carlo Curatola, componente dell’esecutivo nazionale della Fimmg, la Federazione italiana medici di medicina generale. “Da parte nostra c’è tutta la predisposizione a collaborare con le Regioni. Ce ne sono alcune molto avanti coi lavori, altre che sono rimaste indietro. Ma in generale la situazione adesso è diversa da quella di cinque anni fa. Il Covid nella sua mastodontica richiesta di salute ha messo a dura prova il rapporto medico-paziente. Durante l’emergenza, ricevevamo anche 300 chiamate al giorno contro le 100 dell’ordinario. Era inevitabile che il sistema entrasse in crisi”, prosegue.

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Uno dei nodi cruciali riguardo la gestione delle case di comunità è il ruolo dei medici di famiglia. Alcune Regioni stanno spingendo per una riforma che trasformi questi camici bianchi da liberi professionisti convenzionati a dipendenti del Ssn. Un modello che, sottolineano i sostenitori, consentirebbe alle Regioni di collocare i medici dove più necessario, anche nelle zone meno presidiate, evitando che queste nuove strutture diventino delle scatole vuote. Preoccupazione infondata per Curatola: “L’accordo collettivo nazionale siglato dalla Fimmg ad aprile 2024 prevede un monte ore più che sufficiente per ottemperare alle richieste della sanità territoriale. Sono già state finanziate 20 milioni di ore di servizio, cinque volte quelle richieste per le case di comunità. Non capiamo le preoccupazioni delle Regioni. Queste ore dobbiamo coprirle per contratto, siamo pronti a presidiare queste strutture”.

Nonostante ciò, resta il problema della carenza di medici. “Abbiamo troppi pazienti per ogni medico – prosegue Curatola -. Alcuni colleghi arrivano a 2mila assistiti, ben oltre il limite ideale dei 1200. E con l’invecchiamento della popolazione la domanda di assistenza è destinata a crescere”. Secondo la Federazione, le case di comunità devono rappresentare un’integrazione agli studi medici dei libero professionisti convenzionati, non un sostituto. “In Italia ci sono 60mila studi – spiega Curatola -, uno ogni cinque chilometri quadrati. Sono presidi del sistema sanitario nazionale e garantiscono una capillarità che le nuove strutture da sole non possono assicurare. Obbligare i pazienti, specie gli anziani, a spostarsi per decine di chilometri per accedere alle case di comunità peggiorerebbe il servizio. Con il rischio che le promesse di un rafforzamento della sanità territoriale restino incompiute, vanificando le lezioni apprese durante la pandemia”.



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