Tibet e Xinjiang: quando la geopolitica incontra la religione

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 



La religione è diventata un aspetto coerente della condotta delle grandi potenze nella geopolitica contemporanea. Come dovremmo pensare al significato a lungo termine di questa tendenza e alle sue implicazioni per le relazioni internazionali?


A cura di Luigi Tortora

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Introduzione

Tre decenni fa gli studiosi cinesi, proprio come la maggior parte degli studiosi di relazioni internazionali, consideravano la religione più come un’attività umana privata che come un’attività rilevante per la politica interna e globale. Al giorno d’oggi, tuttavia, la religione ha assunto un’importanza centrale quando si tratta di iniziative democratiche, programmi di costruzione della pace, crescita economica, relazioni internazionali e prevenzione del terrorismo.
Le politiche e le pratiche del governo cinese in materia religiosa offrono un utile esempio dei dilemmi legati alla regolamentazione delle relazioni sociali in generale. Attraverso le sue politiche a sostegno della progressiva liberalizzazione delle relazioni socioeconomiche, il partito-stato ha creato crescenti aspettative sull’autonomia popolare. Mentre il regime si trova ad affrontare l’imperativo di reprimere gli aspetti del cambiamento socioeconomico che minacciano la sua autorità politica, deve comunque presentare un’immagine generale di tolleranza per una maggiore autonomia tra la popolazione in generale. Mantenere questo equilibrio è particolarmente critico nel campo della religione, che è sia un sistema altamente personale e interiorizzato di norme di credo e di comportamento, sia una risposta ai fallimenti del regime nel garantire benessere ai suoi cittadini. La regolamentazione della religione riflette le politiche del Partito che garantiscono un’autonomia limitata per le pratiche accettate mentre tentano di reprimere le attività che sfidano l’ortodossia politica.
Secondo il diktat propagandistico del Partito Comunista Cinese (PCC), sia nella sfera pubblica cinese che nelle relazioni estere del Paese, tutte le questioni relative all’etnia e alla religione devono essere gestite rigorosamente. Il governo del PCC cerca di promuovere un’immagine esteriore di armonia e minimizza qualsiasi conflitto etnico controllando rigorosamente gli affari etnici e religiosi. Tuttavia, considerati i livelli estremi di malcontento popolare nei punti caldi della Cina – Tibet e Xinjiang – la forza e la persuasione sono solo misure tampone che non possono risolvere le questioni alla base della violenza.

La difficile convivenza tra religione e geopolitica nello scenario cinese

Pechino è generalmente considerata contraria alla religione, quindi quando si pensa alla Cina e alla religione è molto più comune concentrarsi sulla repressione sistematica della libertà religiosa da parte del Paese. In Asia, le religioni sono molto diverse in numerosi paesi, dimostrando così che la mappa del panorama religioso globale non cresce in modo coerente ovunque. La Cina, si colloca tra i primi sei paesi asiatici in termini di diversità religiosa, dopo Vietnam, Hong Kong, Taiwan, Singapore e Corea del Sud.
Nel 2013 ha registrato anche il maggior numero di restrizioni imposte dal governo sulla pratica religiosa.
Pechino ha modificato la sua Costituzione nel 1982, per includere leggi sulla protezione della libertà religiosa e delle attività religiose considerate normali, affinché venisse promosso un governo ateo caratterizzato da una rigida separazione tra religione e politica. Paradossalmente, però, i funzionari governativi cinesi sono chiamati a selezionare ed eleggere i leader spirituali della tradizione buddista tibetana, tra cui il Panchen Lama[1] e il Dalai Lama, i due più alti gerarchi ecclesiastici del Tibet[2].
Come per molti aspetti della regolamentazione sociale in Cina, quella della religione procede essenzialmente dai dettami politici del PCC, che vengono poi espressi e applicati in parte attraverso la legge e la regolamentazione amministrativa. La diffusione e l’attuazione delle politiche del Partito sulla religione sono responsabilità di una rete intersecante di organizzazioni governative e di Partito.
Per decenni, il Partito Comunista al potere ha posto la religione sotto un controllo stretto, globale e coercitivo. Esercita il controllo utilizzando leggi e regolamenti arbitrari, implementandoli attraverso una rete complessa ma sofisticata di agenzie governative e di partito a tutti i livelli, tra cui il famigerato Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito del PCC, l’Amministrazione statale per gli affari religiosi e l’apparato di pubblica sicurezza della Repubblica Popolare Cinese (RPC). Chiunque sia sospettato di violare le politiche religiose del PCC viene severamente punito[3]. 

La religione nell’ottica di Xi Jiping

Con l’amministrazione di Xi Jinping assistiamo alla sinicizzazione del contenuto stesso della fede e alla rivisitazione delle parole delle Scritture – siano esse la Bibbia, i Sutra o il Corano. È necessario risalire all’epoca di Mao Zedong e della Rivoluzione Culturale per trovare qualcosa di lontanamente paragonabile.
Xi è in grado di attingere a tecnologie che Mao Zedong poteva solo sognare: dall’intelligenza artificiale fino alle app di tracciamento.
Questo totalitarismo non è semplicemente autoritarismo. Il Partito Comunista Cinese al potere ha intrapreso il tentativo più completo di manipolare, controllare o distruggere comunità religiose da quando Mao fece dello sradicamento della religione uno degli obiettivi della sua Rivoluzione Culturale. Ora Xi, apparentemente, temendo il potere di un credo religioso indipendente come una sfida alla legittimità del Partito Comunista, sta cercando di trasformare radicalmente la religione al servizio di questo, impiegando una politica draconiana nota come sinicizzazione[4].
Nel marzo 2022 è entrato in vigore un nuovo regolamento sulla religione, Misure per l’amministrazione dei servizi di informazione religiosa su Internet[5].
Questo nuovo regolamento ha effetti particolarmente significativi e negativi sulle comunità religiose indipendenti e non registrate. A causa della grave persecuzione da parte del governo, molti di loro si affidano a piattaforme e risorse online per l’educazione religiosa, la formazione, i raduni ed altre pratiche religiose. Questi strumenti sono, spesso, l’unico mezzo praticabile attraverso il quale queste comunità possono svolgere attività e connettersi tra loro, soprattutto durante il rigido blocco dovuto al Covid-19.  Al fine di eseguire le misure prescritte dal regolamento le autorità cinesi hanno reclutato un numero significativo di revisori per prendere di mira e censurare i contenuti religiosi su Internet. Gruppi cristiani e buddisti tibetani hanno riferito che i loro siti web e i gruppi virtuali WeChat sono stati chiusi e non sono più accessibili[6].
La United States Commission on International Religious Freedom (USCIRF) teme che questo regolamento possa portare a ulteriori persecuzioni e abusi, soprattutto per i gruppi che hanno legami con l’estero[7].
Le normative cinesi impongono anche restrizioni più severe ai gruppi religiosi sanzionati dallo stato. Questi gruppi sono tenuti a fornire informazioni dettagliate alle autorità per richiedere un permesso per operare online. Inoltre, sono tenuti ad autocensurare il proprio materiale religioso su Internet.
Si ritiene comunemente che gli intellettuali cinesi, per quanto critici nei confronti del loro governo, delle loro istituzioni e delle loro politiche, non siano ricettivi alle richieste di maggiore autogoverno e ancor meno di indipendenza, nelle regioni autonome della Cina, in particolare nel Tibet e nello Xinjiang. Sebbene si possa sostenere che la cultura tibetana abbia, in una certa misura, esercitato una forma di attrazione sulle menti critiche in Cina negli ultimi anni, la cultura uigura non ha raggiunto gli stessi risultati.

Leggi anche:

Il Tibet tra l’essenza della religione e il nazionalismo

Il Tibet non è una questione identitaria e culturale per la Cina. È essenzialmente una questione strategica e di sicurezza. Situato alla frontiera occidentale della Cina, è stato storicamente una realtà regionale vulnerabile. È una periferia strategica non solo a causa della guerra India-Cina del 1962, ma soprattutto perché è un’area minoritaria situata nella periferia sud-occidentale che occupa un quarto del territorio cinese. L’esplosione dei disordini tibetani negli ultimi tempi ha messo in luce non solo la natura imperfetta della politica cinese sulle minoranze, ma ha anche sollevato interrogativi sull’efficacia del suo approccio incentrato sulla sicurezza nell’affrontare la questione del Tibet[8].
La memoria è essenziale per le rivendicazioni nazionalistiche del popolo tibetano. Umberto Eco, ad esempio, credeva che la memoria collettiva rappresentasse l’identità collettiva. La memoria viene utilizzata in modo diverso da persone con programmi politici diversi. I gruppi reazionari tendono a preservare i ricordi in base a ciò che considerano utile e significativo per la loro causa. I gruppi rivoluzionari, invece, tendono a cancellare la memoria nell’interesse di dimenticare tutto ciò che esisteva prima della loro ascesa per ripartire da zero. Pur essendo in contrasto con altre forme di ideologia politica (laicità, democrazia, comunismo, pluralismo), la religione è una forza coesa nelle rivendicazioni nazionalistiche, soprattutto quando si tratta di minoranze nazionali[9].
La pratica comune delle liturgie e il sentimento di fratellanza e sorellanza che emerge attraverso la religione hanno il potere di generare coesione tra le persone. Se da un lato i leader religiosi tibetani si rendono conto che l’autoconservazione è necessaria ed essenziale, dall’altro comprendono anche che un convinto conservatorismo e tradizionalismo possono essere strategie controproducenti, se non addirittura autodistruttive, in regimi autorevoli come il governo comunista cinese[10].
L’integrazione politica della popolazione tibetana cinese richiede che i tibetani siano in grado di conciliare la loro doppia identità di etnia tibetana e di cittadini cinesi. Nei quasi 70 anni trascorsi dall’annessione del Tibet questo obiettivo di costruzione della nazione non è stato raggiunto. Recentemente in Cina ci sono stati appelli per nuovi dibattiti sulle politiche statali nei confronti della regione. Diversi studiosi cinesi hanno proposto una seconda generazione di politiche etniche volte a enfatizzare i diritti individuali e il multiculturalismo rispetto all’autonomia etnica regionale. Tali dibattiti, tuttavia, si basano sulla preoccupazione che l’autonomia etnica regionale – cioè la creazione di regioni autonome tibetane – abbia contribuito a inasprire i confini etnici e a rafforzare il nazionalismo locale. Alcuni analisti sostengono che l’integrazione politica dei tibetani nella RPC richiederà un pensiero ancora più radicale all’interno della Cina, un pensiero che liberi l’espressione dell’identità nazionale dall’etichetta maoista di nazionalismo locale e che riconosca l’insicurezza dell’identità dei tibetani. Non vi è, tuttavia, alcuna indicazione che tale nuova mentalità prenderà piede nei circoli politici cinesi nel prossimo futuro, suggerendo che le tensioni irrisolte su cosa significhi essere tibetano nella Repubblica popolare cinese probabilmente si manifesteranno in nuove forme di protesta[11].
Per Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, l’occupazione cinese del Tibet avvenuta nel 1950 fu un atto imperialista che non solo privò i tibetani dell’autodeterminazione politica, ma li privò anche della libertà di esprimere e prendersi cura della propria cultura, credo religioso e costumi. Da quando la principale autorità religiosa e politica del Tibet, il quattordicesimo Dalai Lama, lasciò il Tibet nel 1959, 122.000 tibetani lo hanno seguito in esilio. Il Dalai Lama e l’amministrazione tibetana in esilio stabilirono il loro quartier generale politico e culturale a Dharamsala, nel nord dell’India.
Il concetto di reincarnazione, fondamentalmente religioso, ha sempre assunto, in Tibet, un significato politico. Questo concetto è stato utilizzato non solo da alcune sette di buddisti tibetani per risolvere il problema della successione nelle sette, ma anche nel governo.
Con questo processo, il Tibet è diventato l’unico paese al mondo ad essere guidato da un monaco che sembra essere la reincarnazione del sovrano precedente.
Questa particolare pratica ha creato problemi al Tibet come paese e ne ha addirittura minato la sovranità.
Attraverso la manipolazione e presentando i propri candidati per le alte posizioni governative, la Cina ha cercato di subordinare indirettamente il Tibet per rivendicare la sovranità su di esso. Questa tendenza, iniziata nel XVIII secolo, si intensificò nel XX secolo, dopo che i comunisti salirono al potere in Cina. La recente controversia sull’identificazione del Panchen Lama e il presunto piano d’azione sulla scelta della reincarnazione del Dalai Lama in caso di sua morte in esilio indicano il culmine di questa lotta di potere tra Cina e Tibet[12].
L’esperienza tibetana è un esempio di come un concetto religioso degenera in una questione di contesa politica internazionale quando viene utilizzato per scopi extra religiosi.

Lo scenario islamico cinese: lo Xinjiang

Negli ultimi due decenni, lo scenario cinese nordoccidentale, è stato teatro di una rivitalizzazione dell’Islam, dell’identità uigura, dell’opposizione nazionalista anticoloniale e dei movimenti di protesta nello Xinjiang.
Anche se lo Stato cinese cerca di formare un numero crescente di dirigenti locali, capaci di integrarsi nella nuova economia di mercato socialista, ha difficoltà a cancellare le disuguaglianze sociali e una parte della società uigura si sente emarginata. Allo stesso tempo, il mantenimento dell’egemonia Han[13] sul sistema politico locale, la mancata presa in considerazione delle richieste sociopolitiche degli uiguri e l’esacerbarsi della repressione politica e religiosa, hanno contribuito a screditare il regime cinese. Pechino non sembra pronta ad allentare la leadership che mantiene sulla vita politica e religiosa nello Xinjiang[14].
Lo Xinjiang cinese è uno dei territori in Asia in cui i non musulmani governano su una maggioranza musulmana[15].
La Cina sembra avere un relativo successo nel mantenere il controllo di una regione a maggioranza musulmana rispetto ad altri paesi in una posizione simile – ad esempio Israele e Palestina, India e Kashmir o le Filippine e il sud di Mindanao. Questo perché Pechino può fare affidamento su un’antica tradizione Han o sinocentrica di governo delle minoranze. Ad oggi, la principale modalità di governo è stata l’assegnazione etnocentrica di status e privilegi a diversi gruppi a seconda del loro grado di docilità e acculturazione. Ciò ha portato a una gerarchia socio-spaziale informale. In questa gerarchia, i cosiddetti musulmani Hui[16] sono più vicini al centro rispetto a qualsiasi altro gruppo musulmano. Sono sinicizzati, considerati religiosamente moderati e la maggior parte di loro vive fisicamente in prossimità dei vicini cinesi non musulmani. I musulmani di origine centroasiatica, come gli uiguri turchi, vivono più lontano dal cuore della Cina e sono considerati culturalmente più estranei e inclini all’estremismo religioso[17].
La sinicizzazione e il pretesto di contrastare il terrorismo, indebolire l’estremismo e prevenire la secessione, ha portato ad un’intensificazione della repressione religiosa contro i musulmani uiguri.
Nel 2009, sotto la tutela dell’Amministrazione statale cinese della radio, del cinema e della televisione che sovrintende all’editoria dei media, le autorità locali dello Xinjiang hanno formato un ufficio parallelo, il Progetto Tianshan, per attuare politiche più severe nei confronti dell’Islam. Nello specifico, il progetto si concentra sulle pubblicazioni illegali che promuovono l’estremismo, il separatismo e il terrorismo, o quelle che Pechino chiama le tre forze del male generalmente attribuite alla fede islamica[18].
Le violazioni dei diritti umani da parte di Pechino, che minano i diritti civili, politici, sociali, culturali ed economici degli uiguri, fanno parte di un modello di abusi di lunga data che dura da decenni e culmina in vari movimenti separatisti. All’indomani dell’11 settembre, Pechino ha iniziato ad adottare il discorso della guerra al terrorismo per giustificare le sue leggi e le sue pratiche repressive. Oggi gli uiguri sono soggetti al sistema di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, internati in campi di rieducazione e sperimentano restrizioni pervasive alla libertà religiosa. In risposta alle critiche americane, il governo cinese insiste sulla smentita. Tuttavia, la sua politica draconiana sta creando un terreno fertile per l’estremismo violento a livello nazionale e internazionale. Pertanto, è nell’interesse strategico di Pechino rispettare, proteggere e promuovere i diritti umani di tutti i cittadini cinesi.
Gli Hui hanno un solido ancoraggio storico e sociale nella realtà cinese. Non sono una questione politica come i musulmani uiguri dello Xinjiang. Partecipano alla diversità geografica e culturale del territorio cinese, dei suoi dialetti, dei suoi costumi e delle sue pratiche. Ciò li rende pragmatici e cauti nei confronti delle nuove ideologie. A livello locale e nazionale, l’Associazione islamica cinese è il luogo in cui tutte le tendenze devono trovare compromessi tra tensioni e conflitti di potere. Anche se una corrente fondamentalista transnazionale riesce ad affermarsi, potrà mantenersi solo adattandosi, come tutte le correnti dell’Islam che l’hanno preceduta[19].


[1] Come il Dalai Lama, il Panchen Lama è considerato l’incarnazione di un aspetto del Buddha. Il Panchen Lama è la reincarnazione di Amithaba, il Buddha della Luce Illimitata, mentre il Dalai Lama è la reincarnazione di Avalokiteshvara (Chenrezig in tibetano), il Buddha della Compassione. Tradizionalmente, ciascuno funge da mentore per l’altro e svolge un ruolo chiave nell’identificazione della reincarnazione dell’altro.
[2] Thanh-dam. 1998/2000. Asian Values and the Heart of Understanding: A Buddhist View. Josiane Cauquelin, Paul Lim and Birgit Mayer-König, eds. Asian Values: An Encounter with Diversity, 2nd ed. Richmond, state: Curzon, pp. 43-69.
[3] Kuei-min Chang, Spiritual State, Material Temple: The Political Economy of Religious Revival in China, Columbia University Academic Commons, 2016, http://dx.doi.org/10.7916/D8SN097K.
[4] China’s Xi warns against religious infiltration from abroad, Associated Press, April 24, 2016, http://bigstory.ap.org/article/0181dc9eb62b4c91ae76818b97c17eb0/chinas-xi-warns-against-religious-infiltration-abroad.
[5] Martin Lavicka, Julie Yu-Wen Chen, New Measures for Governing Religions in Xi’s China, Volume 59, Issue 3, August 15, 2023, https://doi.org/10.1177/00094455231187046.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Tsepon Wangchuk Deden Shakabpa, One Hundred Thousand Moons – An Advanced Political History of Tibet (New York: HarperCollins, 1988) pag. 885-886.

[9] In the Mirror of Memory: Reflections of Mindfulness and Remembrance in Indian and Tibetan Buddhism. Edited by Janet Gyatso. Albany: State University of New York Press, 1992. vii, pag. 307.
[10] Garfield, J. (2015). Engaging Buddhism: Why it matters to philosophy. New York, NY: Oxford University Press.
[11] Ryavec, Karl E. 2015. A Historical Atlas of Tibet. Chicago: The University of Chicago Press.
[12] Dalai Lama, Reincarnation. https://www.dalailama.com/the-dalai-lama/biography-and-daily-life/reincarnation
[13] Gli Han minzu – minzu variamente tradotto come nazionalità o gruppo etnico, ma generalmente utilizzato per indicare una categoria di popolazione riconosciuta dallo stato – costituiscono ufficialmente il 91,5% della popolazione cinese.
[14] X. Li, Lo Xinjiang moderno. Armonia e progresso nel cuore dell’Asia Centrale, Anteo Edizioni, Cavriago, 2020.
[15] The State Council Information Office of the People’s Republic of China, Historical Matters Concerning Xinjiang, July 2019, First Edition 2019.
[16] Gli Hui sono un’antica diaspora musulmana che, a parte la loro religione, si è acculturata con la popolazione cinese che li circonda. Le più alte concentrazioni di musulmani Hui vivono nella Cina nord-occidentale e sud-occidentale, in particolare nel Ningxia, Gansu, Qinghai e Yunnan. A differenza degli Hui, che sono sparsi in gran parte della Cina e parlano la stessa lingua dei loro vicini non musulmani, gli uiguri di lingua turca hanno una chiara concentrazione demografica nella regione nordoccidentale della Cina, lo Xinjiang.
[17] Amy H. Liu, Kevin Peters, The Hanification of Xinjiang, China: The Economic Effects of the Great Leap West, Studies in Ethnicity and Nationalism: Vol. 17, No. 2, 2017.
[18] N. Holdstock, Islam and instability in China’s Xinjiang, NOREF Norwegian peacebuilding resource Centre, March 2014.
[19]  Alexandre Papas, Kashgar Revisited: Uyghur Studies in Memory of Ambassador Gunnar Jarring: Muslim Reformism in Xinjiang, chapter 8, pag. 161-183, Vol. 34, 01 Jan 2017.


Foto copertina: Tibet e Xinjiang 

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link