Abitare, interni milanesi, comfort | il manifesto

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«La casa all’italiana è al di fuori e di dentro senza complicazioni, accoglie suppellettili e belle opere d’arte. Il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto una ‘machine à habiter’. Il cosiddetto ‘comfort’ non è nella casa all’italiana solo nella corrispondenza delle cose alle necessità, ai bisogni, codesto suo ‘comfort’ è in qualcosa di superiore, esso è nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri». Con queste parole nel del primo numero di «Domus» del gennaio 1928, Gio Ponti delinea una visione italiana dell’abitare «moderno»: una casa ariosa e aperta all’esterno, dove trovano posto la memoria del passato e l’immaginazione del futuro, pensata per abitanti benestanti e amanti del bello; una casa a misura umana, che ci somiglia, anzi, che ci fa sembrare un po’ più belli, freschi e moderni.

È una visione luminosa e un po’ tranquillante, che predilige la categoria di gusto, qualità coltivabile e mutevole, a quella di stile, struttura normativa e teorica, lontana dai dibattiti attorno alla razionalizzazione dell’abitare che infiammavano la disciplina in quegli anni: accelerazione industriale e inurbamento sono ancora fenomeni circoscritti in un’Italia di fresco regime e ostentato ottimismo, e dunque, fatalmente, la via italiana all’abitare moderno prende una strada diversa da tutte le altre, ma non per questo meno moderna. Paradossalmente il nostro è un percorso più libero, un viaggio verso il futuro nel quale coesistono tradizione e sperimentazione, ironica leggerezza e senso del tempo, lusso e frugalità, cura artigianale e innovazione industriale; è una storia profondamente milanese che tuttavia riverbera nel resto del paese e nelle memorie infantili di molti di noi nati negli anni settanta del secolo scorso.

A villa Necchi Campiglio, punto di partenza, firmato da Piero Portaluppi, per gli interni milanesi del Novecento, la mostra Nelle Case. Interni a Milano 1928-1978 (fino al 16 marzo) permette di immergersi in questa storia e di, letteralmente, sfogliarla. Tutto nasce dal poderoso volume Nelle Case. Milan Interiors 1928-1978, di Enrico Morteo e Orsina Simona Pierini (Hoepli, 2023), frutto di una ricerca capillare negli archivi di «Domus», «Casabella» e «Abitare», che documenta oltre duecento interni milanesi sullo sfondo del dibattito architettonico e della storia della città. L’apparato fotografico è ricchissimo ma la chicca sono le planimetrie ricostruite dagli autori: negli anni trenta i bagni erano pochi e lontani anche nelle case dei ricchi; fino all’avvento della televisione gli spazi per appartarsi e studiare, anche minimi, sono di norma; negli anni cinquanta esplode il bisogno dell’office, una stanza di passaggio dove si fa la prima colazione; nel frattempo i tendaggi per separare gli ambienti invadono le case, trasformando anche 60 metri quadri in un palcoscenico domestico.

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Per la mostra, Morteo e Pierini, assieme a Daniele Ledda autore della grafica del volume e di un allestimento bello ed efficace, hanno letteralmente smontato il libro estraendo dal percorso cronologico i temi al cuore della progettazione. Negli interni lussuosi e un po’ algidi di Villa Necchi, il visitatore incontra enormi album dedicati all’evoluzione di materiali e dettagli, al cambiamento delle palette di colori, al «campo di battaglia dello spazio» ovvero le planimetrie, alla tipologia del pied à terre e dell’appartamento per persona sola che fa la sua comparsa negli anni sessanta, prima come accessorio del jet set internazionale e poi come cornice per nuovi modi di stare al mondo. Meglio di ogni altro tema, le camere dei ragazzi raccontano sia la tensione tra progettazione e ambienti vissuti che un’evoluzione dei rapporti familiari che si fa spazio e disordine.

Nelle soffitte della villa trovano posto immagini e piante di 71 case che quattro generazioni di architetti hanno realizzato per le loro famiglie: entriamo negli interni dove Luigi Figini, BBPR, Ettore Sottsass, Marco Zanuso, Vittoriano Viganò, Nanda Vigo, Joe Colombo, Gae Aulenti e tanti altri hanno sperimentato soluzioni in libertà al di fuori delle aspettative della committenza. I più sorprendenti sono quelli di Franco Albini, Ignazio Gardella e Gianluigi Banfi della fine degli anni trenta. Mentre fuori l’Italia precipita qui si respira: stanze semivuote, abitate da amache e tripoline, mobili e quadri di famiglia montati su pertiche basculanti che prefigurano gli allestimenti museali di Carlo Scarpa; spazi dove le vestigia della grande ebanisteria di Maggiolini trovano nuova energia grazie a una certa scanzonatura rigorosa, la cifra unica del gusto italiano del Novecento, che affiora fino alla magnifica radicalità degli interni avvolgenti e futuribili di Joe Colombo e Nanda Vigo, realizzati trent’anni dopo. Di questa cifra Gio Ponti offre un’altra felice interpretazione nelle sue case composte da spazi flessibili e modernissimi dove tuttavia risuonano le proporzioni antiche.

Le case degli architetti fanno capire a colpo d’occhio perché questa è una storia così milanese. Negli anni trenta una borghesia industriale in crescita ha bisogno di spazi nuovi per vivere e rappresentarsi in maniera lussuosa ma sobria, moderna e conservatrice, come i saloni di villa Necchi; è un’identità precisa che Luigi Caccia Dominioni interpreta magistralmente nel dopoguerra. Ma esiste anche un’altra traiettoria per la dimensione domestica dell’opulenza, più razionalista e spiazzante, esemplificata negli anni trenta dalla splendida casa Minetti di Albini e nel dopoguerra dalla casa Tremi di Gardella, dagli interni di Osvaldo Borsari con gli interventi di Lucio Fontana e da quelli di Vittoriano Viganò.

Milano è la città più bombardata d’Italia, dove si sperimenta un modello di ricostruzione che ricuce il tessuto della città storica inserendo capsule contemporanee con interni da reinventare. A Milano si trovano le redazioni delle riviste di architettura, si sviluppa l’industria del mobile e fioriscono le aziende di design che producono gli oggetti disegnati dagli stessi architetti che progettano gli interni pubblicati sulle riviste. Nel raggio di pochi chilometri si sviluppa un sistema di ricerca, committenza, produzione, critica e promozione straordinariamente prensile ed efficace, che per vari decenni riesce a essere autenticamente sperimentale e industriale, borghese e d’avanguardia.

Racconta Ettore Sottsass a proposito delle serate a casa sua e di Fernanda Pivano: «… erano passati dieci, undici anni dalla fine della guerra. Tutti si muovevano di qua e di là, il futuro si stava già costruendo, già si litigava per progettarlo». Litigando ci si raggrumava in gruppi, primo fra tutti il Movimento Arte Concreta dal quale prende le mosse Nanda Vigo, protagonista della sintesi tra arte, pensiero architettonico e progettazione di interni che diventano terreno di sperimentazione e teatro per nuove soggettività. Si inventano i sistemi componibili che trasformano il modo di organizzare gli spazi e l’idea di arredamento: i mobili radicali e incantevoli di Joe Colombo si aprono, scivolano, cambiano funzione e ci prendono in giro.
È un’età dell’oro popolata da figure leggendarie e definita dalla assoluta centralità della ricerca, sempre e comunque; e per questo è così attuale. Uno dei tanti meriti di mostra e libro è riportare in vita la dimensione domestica, intima e quotidiana di quella stagione che va ben oltre l’orizzonte della milanesità.



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