quell’“attrazione” verso l’America di Romano Prodi

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Romano Prodi a Piazza pulita si è detto preoccupatissimo che Giorgia Meloni ceda alla “attrazione” verso l’America di Donald Trump. C’è da capirlo: il 5 novembre scorso, il giorno delle ultime presidenziali Usa, lui era a Pechino. Auto-convinto – come molti dem statunitensi – che avrebbe vinto Kamala Harris. La quale avrebbe continuato la guerra contro la Russia “fino alla vittoria definitiva” e avrebbe invece trovato qualche appeasement fra Occidente euroamericano e Cina. Uno scenario in cui un power broker di alto livello fra Ue e Cina com’è da tempo l’ex Premier italiano avrebbe potuto utilmente inserirsi.



Cento giorni fa Prodi era talmente preso dal suo sogno cinese che aveva convinto a seguirlo anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, lui pure verosimilmente fiducioso che un gioco di sponda con la Cina avrebbe potuto contribuire a mettere sotto pressione Meloni, che pochi mesi prima aveva disdetto gli accordi sulla Via della Seta (peraltro su input dell’America dem di Joe Biden).

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Con i due leader cattodem italiani c’era John Elkann, Presidente e maggiore azionista dell’italo-francese Stellantis. Pur essendo cittadino (anche) americano, Elkann era a Pechino perché alle prese con la crisi del suo gruppo e con la resistenza del Governo Meloni a concedere all’ex Fiat ennesimi aiuti statali. L’apertura di un canale europeo (cioè “mattarelliano e prodiano”) con il Dragone (la stessa via ripetutamente adombrata dal Presidente francese Macron) è stata sancita dall’istituzione di una cattedra universitaria ad personam in Cina per Prodi e finanziata da Elkann. Oggi sembra tutto già preistoria.



Il 21 gennaio il Presidente di Stellantis (presente negli States con l’ex Chrysler) è corso ad acquistare un golden ticket per l’inauguration day di Trump, per una sorta di anticamera in cui alcuni magnati internazionali – al prezzo di un milione di dollari – hanno potuto scambiare una stretta di mano con il neo-presidente. La strada di Elkann sembra dunque già separata da quella di Mattarella e Prodi (l’Ue sta fra l’altro rappezzando un piano auto, cui non dovrebbe mancare l’appoggio del Governo italiano).

Il Quirinale ha intanto alzato il tiro contro Trump ed Elon Musk, incurante del fatto che il nuovo Presidente Usa voglia il cessate il fuoco subito in Ucraina; e che Musk sia stato decisivo nella liberazione-lampo della giornalista italiana Cecilia Sala, arrestata in Iran. Prodi, dal canto suo, lancia un allarme forte e chiaro contro l’”attrazione fatale” del Governo italiano per l’America. Ma gli Usa che hanno oggi alla loro guida Trump (47esimo presidente democraticamente eletto – rieletto – in due secoli e mezzo) sono la stessa calamita ininterrotta per l’Italia e per l’Europa dal 1945 in poi. Non da ultimo nella stagione prodiana. E non senza cortocircuiti ai limiti della surrealtà.

Come dimenticare che il ribaltone del 2019 – sotto gli auspici del Quirinale – portò alla nascita del “Governo Ursula” inneggiato da Prodi solo grazie all’endorsement di Trump 1 a “Giuseppi” Conte 2? Come scordare che Silvio Berlusconi sarebbe stato rimosso brutalmente (per certi versi “alla Zelensky” oggi) dalla guida legittima e democratica del Governo italiano se non anche per l’”attrazione” del Quirinale di Giorgio Napolitano verso la Casa Bianca di Barack Obama? Non prima di una “operazione militare speciale” della Nato: ma quella volta contro la Libia. E contro il centrodestra italiano.

Sul passato non basterebbero tre “spilli” o forse molti più. Da Presidente dell’Iri Prodi voleva vendere l’Alfa Romeo alla Ford, negandola alla Fiat (che poi prevalse, grazie all’ultima parola di Bettino Craxi: lui sì davvero “non attratto” dagli Usa, al punto da essere tuttora sepolto fuori dall’Europa). Le grandi privatizzazioni del centrosinistra ebbero come Grande Sorella la Goldman Sachs – allora regina di Wall Street –  di cui Prodi è stato international advisor.

L’intervento Nato contro la Serbia – con l’Italia allineata alla Casa Bianca dem di Bill Clinton  e con tanto di bombardamento all’ambasciata cinese di Belgrado – avvenne quando Premier era Massimo D’Alema, ma la maggioranza era quella prodiana vincitrice nel 1996 (e nel Governo D’Alema il Vicepremier con delega ai servizi, poi ministro della Difesa, era Mattarella). E la “madre di tutte le Opa” su Telecom non è stata forse concepita ancora e sempre oltre Atlantico?

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Nel frattempo Prodi era diventato Presidente della Commissione Ue e fu il suo quinquennio a preparare il grande allargamento dell’Ue a Est. Nel maggio 2004 entrarono in blocco: Ungheria, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia, oltre a Malta e Cipro. Con Vladimir Putin agli albori della sua leadership in Russia, maturò così il “tradimento” degli impegni presi dall’Occidente all’epoca della riunificazione tedesca. “Non un pollice in più oltre il confine fra Germania e Polonia” avevano garantito gli Usa a Mikhail Gorbaciov.

Quindici anni dopo tutto l’Est europeo aveva acquisito il doppio passaporto Ue e Nato e l’Ucraina era diventata terra di nessuno, teatro di oligarchie rivali, filoamericane contro filorusse. Fu la radice lontana della Prima guerra russo-ucraina e poi della Seconda, scoppiata giusto tre anni fa. Ma forse vent’anni dopo la sua apoteosi a Bruxelles, il nuovo Prodi –  oggi anti-americano e non allineato – se ne è abbondantemente dimenticato.

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