Recensione | Domenico Siciliano, Della violenza nel diritto penale fascista (di F. Diamanti) | Sistema Penale

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Recensione a Domenico Siciliano, Della violenza nel diritto penale fascista. Il caso della legittima difesa a tutela del patrimonio, Bari, 2023

1. Introduzione. Dal “diritto” alla “scriminante imposta dalla necessità”, fino alla legittima difesa. – Le scriminanti sono osservatori privilegiati e piuttosto affascinanti del livello di (in)civiltà dei popoli. Un capitolo del diritto penale nel quale lo studioso, normalmente abituato al controllo della criminalità, si dedica agli spazi di libertà. Al posto della sofferenza prodotta dall’intervento del diritto penale, qui si parla di solito di erosione degli spazi tipici dello ius poenale, di fatti significativamente penalistici che per essere considerati leciti non hanno bisogno di misurarsi con la colpevolezza dei loro autori. Si parla di diritti, ovvero d’istituti la cui operatività, nel caso concreto, rende la difesa dell’imputato completa, sufficiente.

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C’è diritto e diritto, naturalmente.

L’istituto di cui s’intende discutere in questa occasione, la legittima difesa[1], non delinea un diritto classico (es. di voto, di studio, di movimento, di sciopero, di scioglimento del vincolo matrimoniale, di cure, ecc.), ma qualcosa di parzialmente diverso nel suo genere. Se la si osserva sotto un profilo tecnico, è possibile inserire la difesa nel novero dei diritti imposti dalla necessità: al pari dell’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.) e dello stato di necessità (art. 54 c.p.). Più precisamente, si tratta di una causa di giustificazione pensata per scriminare “fatti” che, in altri contesti, costituirebbero reato. In altri termini, la legittima difesa interviene rendendo lecite offese già oggettivamente e soggettivamente formate[2].

Questo punto è centrale.

Perché fa emergere l’idea che chi si difende non stia uccidendo o lesionando o percuotendo un insetto (il fatto è ab origine “atipico”), ma un uomo dotato di diritti basilari che nemmeno l’esecuzione del reato riesce a sopprimere (il fatto rimane “tipico”). Solo così, in fin dei conti, si riesce ad allenare l’interprete allo sviluppo di una particolare sensibilità umana; lo si riesce ad abituare alla ricerca di un certo equilibrio tra offesa e difesa, tra aggressione ingiusta e reazione legittima[3].

 

2. Bilanciamenti possibili e impossibili. – Le cautele di cui si è appena detto servono a molte cose, ma sono soprattutto utili per impedire esiti aberranti, siano essi intesi come eccessi di giustizialismo o di garanzia. La regola generale in questo campo è la seguente: con l’art. 52 c.p. lo Stato non delega una qualsiasi reazione al privato cittadino, e senza dubbio non gli appalta un segmento del suo potere punitivo. Prende solo atto del fatto che il privato, in taluni specifici contesti, deve poter neutralizzare da solo il pericolo che scaturisce da un’aggressione a suoi, o altrui, beni giuridici.

Le ragioni sono diverse.

La più importante è che l’istituto della legittima difesa liceizza un uso della forza che può spingersi anche al di là dei mezzi punitivi dello Stato. Davanti a un qualsiasi fatto di reato non scriminato – dal sabotaggio di opere militari alla rapina, fino all’omicidio e all’associazione per delinquere –, normalmente si attiva un procedimento penale infarcito di garanzie, che si conclude, nei casi più gravi (es. mafia, terrorismo, ecc.), con l’ergastolo ostativo. I tormenti corporali, le lesioni, la pena di morte, ecc., peraltro senza processo, sono reazioni incostituzionali, se attuate dallo Stato; il quale, per fortuna, non le include tra le pene principali nel primo Libro del Codice penale.

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A chi agisce in contesti nei quali può prendere vita una scriminante (i c.d. contesti di liceità: es. un’aggressione ingiusta)[4], invece, in linea teorica è permesso quasi tutto: i privati che si difendono, o le forze dell’ordine che utilizzano le armi, o coloro che reagiscono in stato di necessità possono percuotere, limitare la libertà di movimento, ferire, uccidere, se necessario.  Qualcuno, in contesti di assoluta emergenza, discute persino della possibilità di torturare[5]. La consapevolezza che la mano del privato possa spingersi al di là dei poteri punitivi dello Stato è una delle ragioni – ovvia, ma spesso non ben evidenziata – che impediscono alle scriminanti imposte dalla necessità, e nello specifico alla legittima difesa, di essere concettualmente equiparate alla pena.

Tutto ciò implica quantomeno due cose.

Oltre all’esistenza di bilanciamenti possibili, ma che non escludono limiti ed eccessi punibili – su questo si dirà qualcosa nelle conclusioni (v. infra § 5) – la separazione concettuale tra difesa e pena determina innanzitutto l’esistenza di bilanciamenti impossibili. Con questa etichetta si richiamano situazioni nelle quali, nonostante la presenza di un’aggressione ingiusta a uno o più beni giuridici, l’aggredito reagisce con una reazione criminosa, un vero e proprio reato, non una difesa legittima, né un eccesso colpevole. Il bilanciamento impossibile più noto, contrastato con forza un po’ in tutto il mondo occidentale (in Italia con le riforme del 2006 e del 2019[6]) è quello tra vita e patrimonio.

 

3. Il sentiero di Domenico Siciliano: vita e patrimonio come bilanciamento “impossibile”.È proprio nel clima politico di matrice securitaria tipico del nuovo Millennio che Domenico Siciliano inizia i suoi importanti studi sulla legittima difesa[7]; istituto, questo, che l’Autore analizza soprattutto sotto il profilo del carattere (non) bilanciabile dei beni della vita/incolumità e del patrimonio. L’esempio più noto, al quale Siciliano ha dedicato in passato un’intera monografia incentrata sul diritto penale tedesco, è quello dell’uccisione, o il ferimento, del ladro che al momento della reazione “difensiva” non costituisce un pericolo per la sopravvivenza o per l’incolumità di nessuno[8].

La sua produzione scientifica ha dimostrato molto.

Oltre ad aver intercettato, e in qualche misura anche anticipato, i venti politici che avrebbero portato a indesiderabili riforme dell’art. 52 del Codice penale, le sue indagini, di taglio storico e filosofico, hanno contribuito a chiarire e a diffondere l’insegnamento liberale secondo il quale la difesa non può essere sempre legittima. Esistono innanzitutto bilanciamenti, come la vita/incolumità fisica e il patrimonio, che la cultura illuministica italiana del XVIII secolo non vedeva di buon occhio[9]. Tradizione, questa, che in Italia s’è tentato di recuperare nella seconda metà del Novecento e dalla quale, purtroppo, abbiamo deciso di discostarci nel nuovo Millennio.

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Se alla riforma del 2006 Domenico Siciliano reagì con una profonda ricerca sulla genealogia della disciplina della legittima difesa così come uscita dalla penna del legislatore italiano del ‘30[10], davanti alla triste novella del 2019 ha messo nuovamente allo studio l’istituto. Questa volta, però, ha correttamente scelto di indagare sul momento storico in cui furono gettate le basi culturali sulle quali abbiamo oggi edificato enormi ampliamenti legislativi degli spazi di libertà del proprietario aggredito (es. nel suo domicilio)[11].

 

4. La nuova indagine storica. – L’obiettivo dell’ultima opera di Siciliano, in fondo, è quello di dimostrare che le condizioni culturali per la concretizzazione delle ultime due riforme italiane della legittima difesa domiciliare – quella del 2006 e quella del 2019 – abbiano iniziato a formarsi sin dalla seconda metà del XIX secolo; nello specifico, nei decenni di espansione del positivismo filosofico e, di conseguenza, con l’accento sull’uomo delinquente messo dalla “Scuola positiva” del diritto penale e ripreso poi dal legislatore fascista del 1930[12].

4.1. (segue) Dal Codice Zanardelli al Codice Rocco: la protezione (no limits?) della proprietà. – Benché il tema della soppressione (difensiva) della vita del ladro fosse un tema ben noto in un passato normativo[13] e dottrinale[14] più remoto, uno dei momenti centrali nella storia legislativa italiana della legittima difesa è senz’altro il forte cambiamento che si è registrato dal Codice Zanardelli al Codice Rocco. Se il Codice del 1889 impediva esplicitamente la salvaguardia del patrimonio al prezzo della compromissione della vita o dell’incolumità personale (a meno che, naturalmente, l’offesa non fosse accompagnata da un pericolo per la persona)[15], quello del 1930, pur richiedendo una generica “proporzionalità” tra l’aggressione e la reazione difensiva, di fatto ha esteso il campo di applicazione dell’art. 52 c.p. alla protezione no limits di tutti i beni giuridici[16].

4.2. (segue) Dalla «coazione» di Carmignani alla posizione “moderna” del suo primo allievo, Francesco Carrara. – Da un certo punto di vista, dal 1800 a oggi non sembra passato solo un secolo, ma un intero millennio: se oggi il legislatore cerca di realizzare scopi largamente diversi – se non diametralmente opposti – da quelli proposti dalla dottrina penalistica maggioritaria, un tempo la cultura giuridica riusciva a incidere davvero sulle scelte politiche. Potrà sembrare strano, ma all’epoca un cambio radicale di prospettiva, come quello avvenuto in materia di legittima difesa nel passaggio dal primo al secondo Codice penale dell’Italia unita (v. supra § 3.1.), non poteva non avere una sua spiegazione teorica, non poteva non essere anche il frutto di una precisa evoluzione dottrinale sul tema.

Il rifiuto del Codice Zanardelli del sacrificio della vita o dell’incolumità personale per la salvaguardia del patrimonio traeva origine soprattutto dalla dottrina dominante dell’epoca: Giuseppe Carmignani e Francesco Carrara. Il primo vedeva la legittima difesa come un istituto operativo solo in un contesto di “coazione”, in uno status di costringimento morale capace di elidere l’imputazione[17]. Nessuna difesa avrebbe potuto incidere sull’imputazione del fatto realizzato laddove il bene sacrificato fosse stato superiore a quello messo in pericolo dall’aggressione ingiusta. Come fu nel pensiero del suo Maestro, anche nella riflessione teorica dell’allievo non v’è mai stato spazio per la «difesa mortale dei beni»[18].

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Carrara, però, non nascose, né tralasciò, alcune difficoltà.

Un po’ perché visse in un’epoca maggiormente coinvolta da una criminalità comune diffusa, un po’ per via della sua nota sensibilità anche alle problematiche di natura pratica, pur mantenendo saldo il totem del rifiuto dell’uccisione del ladro che non mette in pericolo la vita del proprietario, l’illustre penalista capì che la realtà poneva davanti all’osservatore una varietà infinita di casi. Comprese, in altri termini, che al bianco e al nero delle definizioni tranchant, la società della seconda metà del XIX secolo iniziava a imporre quella lunga scala di grigi che ancora oggi caratterizza le scriminanti e il fondamentale istituto dell’eccesso colposo (v. infra § 4). Proprio in questa direzione furono sferrate le sue più aspre critiche alle definizioni legislative eccessivamente rigide e categoriche, come quella giorno/notte realizzata in materia di difesa dall’art. 560 n. 1 del Codice penale Sardo: «volete voi – chiedeva Carrara – che quando io ascolto i ladri urtare l’uscio della mia camera per introdurvisi corra prima a guardare il mio orologio per sapere qual ora si levi il sole, e soltanto dopo tali verificazioni fattomi certo che io verso nel periodo legittimo, dia di piglio all’archibugio e lo esploda contro gli aggressori? […] Lo scatto di una campana decide della sorte del proprietario! Cinque minuti innanzi esso non fu colpevole […] ma cinque minuti dopo il proprietario è un colpevole, quantunque fosse solo in quella sua casa, e quantunque questa giacendo in località solitaria e remota lo rendesse deserto di ogni speranza ragionevole di soccorso altrui o di intimidazione degli aggressori»[19].

Come sottolinea correttamente Siciliano, «… la concezione di Carrara si posiziona come concezione ‘di cerniera’ che, ancora entro il ‘vecchio’ paradigma del ‘moderamen inculpatae tutelae’, cerca di migliorarlo e di rispondere ai nuovi problemi e alle sempre più forti richieste di ‘difendere la società’»[20].

4.3. (segue) La monografia di Giulio Fioretti e l’influsso della Scuola positiva sull’istituto della legittima difesa. – Un punto di svolta più radicale dell’impostazione teorica della legittima difesa, come ha ben compreso Domenico Siciliano, lo si è avuto con la nota monografia di Giulio Fioretti “Su la legittima difesa”, pubblicata per la prima volta nel 1886[21]. Ebbene, l’avvocato Fioretti, entusiasta sostenitore della “Scuola positiva” del diritto penale, sentì il bisogno di tuonare contro «il sentimentalismo dottrinario» della sua epoca in materia di legittima difesa, il quale avrebbe favorito la diffusione di una eccessiva e ingiustificata tenerezza legislativa nei confronti del delinquente[22].  L’istituto si trasforma nella penna di Fioretti in una vera e propria forma abbreviata non solo del processo penale, ma anche dell’esecuzione della pena[23]. Con questo Autore si attua, per la prima volta nell’istituto della legittima difesa, il cuore pulsante del programma positivista di ricerca e disinnesco della pericolosità dei delinquenti. Per comprenderlo a fondo è sufficiente seguire su cosa egli, richiamandosi anche ad alcune tesi di Raffaele Garofalo, basi la distinzione tra la difesa legittima e lo stato di necessità: il secondo coinvolgerebbe, a suo dire, due interessi tutto sommato privati, in quanto mancherebbe per definizione un autore colpevole; la prima, invece, coinvolgendo necessariamente un aggressore, vedrebbe l’interesse privato (proteggere i propri beni giuridici) sovrapporsi perfettamente a quello pubblico inerente alla prevenzione dal, e la repressione del, crimine[24].

4.4. (segue) Dai tecnicisti al Codice penale del ’30. – Nonostante le critiche intervenute all’impostazione radicale e positivista di Giulio Fioretti, l’idea che il patrimonio possa essere protetto anche al prezzo della vita o dell’incolumità fisica del ladro si diffuse rapidamente: oltre all’introduzione (consentita dall’evoluzione tecnologica) degli offendicula[25], i contributi di vari illustri Maestri del diritto penale finirono per sostenere alcuni elementi di quella radicale impostazione di fondo, peraltro appoggiandosi su di un tecnicismo che poteva (almeno formalmente) liberarli dai lacci scomodi della riflessione filosofica[26].

Il Manzini, ad esempio, vide nella legittima difesa «… una concessione ipotetica e condizionata della potestà di polizia […] che lo Stato fa al privato per ragione di necessità»[27]; ciò nonostante, egli rimase un Autore attento all’equilibrio tra reazione e offesa, tanto da elogiare l’impostazione legislativa liberale fornita dal Codice Zanardelli e da mettere nero su bianco che «… quanto alla proprietà, accordandosi la difesa mediante la forza privata anche fuori dai casi di pericolo o violenza personale, si andrebbe incontro ad abusi e a pericoli gravissimi»[28].

Dopo un lungo e serrato dibattito (anche politico)[29], la disposizione entra nel Codice Rocco all’art. 52 c.p., con un testo a nostro avviso stilisticamente impeccabile (almeno se confrontato al tragico tracollo dei commi che gli sarebbero stati aggiunti nel 2006 e nel 2019), ma inteso come un’arma legittima nelle mani di un privato onesto[30]. Lo dice esplicitamente anche nella Relazione al Re: «La difesa deve essere proporzionata all’entità dell’offesa e non necessariamente all’importanza dell’interesse che si vuole difendere […]. Non si nega che talvolta anche l’importanza dell’interesse da difendere possa costituire un elemento per giudicare la gravità dell’offesa, ma non è mai questo un elemento essenziale e non può mai essere l’unico elemento di valutazione della legittimità della difesa».

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Questa scelta politica marcatamente autoritaria e orientata al coinvolgimento del privato (onesto) nella lotta al crimine (e al delinquente), come ha ben sottolineato Siciliano nel suo importante lavoro, è stata recepita e sviluppata dalla dottrina dominante del tempo, così come dalla giurisprudenza. Solo nella seconda metà del Novecento, anche alla luce dell’influsso di una Costituzione di diciotto anni più giovane del Codice, alcuni scrittori e taluni giudici hanno dato avvio a quel lento, ma essenziale, recupero della vecchia impostazione liberale, quella che avrebbe poi plasmato le impostazioni di fondo della dottrina contemporanea maggioritaria.

 

5. Lotteriespiel? Conclusioni. – La ricerca giuridica, storica e filosofica di Domenico Siciliano ha senz’altro contribuito, in materia di tutela privata del patrimonio, a rendere più solide le ragioni della letteratura e della giurisprudenza sensibili a interpretazioni costituzionalizzanti dell’art. 52 c.p. I suoi studi non costituiscono solo un’eccellente base di appoggio per l’esclusione dei due beni “vita” e “patrimonio” dai bilanciamenti possibili ex art. 52 c.p., ma anche una chiara guida culturale per la ricerca delle origini culturali delle pressioni securitarie tipiche del nostro tempo. Le fatiche di Siciliano contengono, spesso non solo “tra le righe”, un forte monito che rimbomba nelle coscienze di tutti: la reazione difensiva (anche “domiciliare”) non può essere sempre legittima, altrimenti si inaugurerebbe una stagione del terrore nella quale diverrebbe accettabile assistere – come forse avrebbero voluto le presunzioni introdotte nel 2006 e nel 2019 – al ferimento grave o addirittura all’eliminazione fisica di un ragazzino che scappa con un vasetto di marmellata.

Ma come mai si è giunti a tanto?

Le ragioni, a volerle individuare davvero tutte, sarebbero innumerevoli.

Una di queste ha senz’altro a che vedere col fatto che non si può nemmeno eccedere sul versante opposto: vale a dire che le reazioni difensive non possono essere sempre considerate eccessi colpevoli. Esiste anche la necessità di assicurare a chi reagisce in contesti di pericolo una certa capacità di manovra, un certo margine di errore. Senza arretrare di un millimetro nella lotta contro presunzioni radicali come quelle realizzate nelle due ultime riforme – che, detto per inciso, hanno finito per rendere la legittima difesa domiciliare addirittura più libera dell’uso legittimo delle armi da parte delle forze di polizia[31] – devono essere escogitate delle soluzioni alternative per impedire eccessi che nessuno sarebbe stato in grado di evitare.

Su questo versante, due sono stati forse gli errori più seri.

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Innanzitutto, c’è la diffusione di un messaggio di fondo forse poco sincero, concernente la possibilità di riuscire a chiarire ex ante, nel dettaglio, se, come e quando reagire a un’aggressione ingiusta altrui, e di poterlo fare, per giunta, tramite la manipolazione legislativa di un articolo innestato in un vecchio Codice penale “generale”. Come se la tecnica legislativa non influisse sul contenuto sostanziale dei diritti e delle incriminazioni[32]: nessuna disposizione codicistica può avere la presunzione di riuscire a spiegare nel dettaglio come reagire col minor danno possibile per i diritti di tutti, né, d’altro canto, può decidere di procedere con l’esaltazione di rigide presunzioni[33]. Ad ogni modo, non si può pensare di racchiudere in due o tre righe di testo le numerosissime varietà situazionali che prendono vita davanti a una aggressione ingiusta. Più chiaro: sarà un’ovvietà, ma nessuna regola scritta in un Codice “generale” può dirci nel dettaglio come reagire davanti a un’aggressione ingiusta altrui. E questo, almeno a nostro avviso, accade innanzitutto perché nei Codici penali di matrice ottocentesca non c’è proprio lo spazio fisico per dettagliare bene tutto ciò che andrebbe esplicitato al fine di mantenere in equilibrio esigenze diametralmente contrapposte che si realizzano in contesti fattuali così fortemente differenziati. Indipendentemente dalla tecnica legislativa utilizzata, c’è poi un ostacolo che ha a che vedere con l’imprevedibilità degli eventi: ogni aggressione ingiusta è diversa dall’altra, ogni situazione è a sé stante. Cambia tutto, varia proprio la dinamica complessiva del contesto nel quale chi si difende si trova a dover reagire. Esistono decine di fattori concreti inimmaginabili ex ante per qualunque legislatore: da quelli più marcatamente impersonali (luogo, visibilità, difficoltà nel reperire aiuto, numero degli aggressori, presenza di donne e minori, violenza  dell’aggressione, effetto sorpresa, ecc.), fino a quelli personali (carattere, conformazione fisica, capacità di controllo dell’ira o della paura, precedenti esperienze, ecc.). Quando il Carrara si prendeva gioco del legislatore sardo affermando di non poter, davanti a un’aggressione, correre a prendere l’orologio per parametrare meglio la reazione all’ora nella quale avviene, voleva proprio sottolineare il fatto che in quei contesti nessuna regola scritta può illustrare con troppa precisione come parametrare la protezione dei propri beni giuridici.

Quel che si sa, ma non si dice è che l’art. 52 c.p., pur fornendo indicazioni di massima senz’altro utili per il cittadino, si atteggia più da “regola di giudizio” destinata al giudice che da vera e propria “regola di condotta” pensata per chi si dovrà difendere. Chi cerca di creare nel Codice Rocco una formulazione della legittima difesa capace di orientare con chiarezza e precisione il cittadino su tutte le tipologie di reazioni scriminabili (e, dunque, non impedibili) compie, purtroppo, uno sforzo vano.

Da qui, probabilmente, il secondo errore.

I legislatori si sono concentrati sulla disposizione sbagliata.

Se si vogliono creare (giuste) valvole di sfogo in materia di scriminanti imposte dalla necessità, e se lo si vuole fare proprio all’interno del Codice penale “generale” (e non in codici di settore), si deve intervenire sull’art. 55 c.p., limitando la punibilità dell’eccesso alla “colpa grave”[34]. Le ipotesi di legittima difesa, anche “domiciliare”, uso legittimo delle armi e stato di necessità, contengono senz’altro qualche indicazione (con cui, peraltro, si realizzano scelte politiche importanti), ma da un punto di vista tecnico-legislativo rimangono delle linee-guida inevitabilmente imprecise. Però o si agisce sull’eccesso (doloso, colposo e incolpevole), oppure l’operatività di questa scriminante rimarrà una Lotteriespiel[35].

I guai che nascono da questa impostazione sono molti.

Affermare tra le righe che la legittima difesa fatica ad atteggiarsi da  regola di condotta, apre a vecchie problematiche di natura dogmatica, quali, ad esempio, la frizione con la non impedibilità del “fatto” scriminato; caratteristica, questa, che esigerebbe invece chiarezza e oggettiva individuabilità della condotta giustificata, già dal testo della singole fattispecie scriminanti. Esistono poi anche seri contro-interessi di natura politica (o, meglio, partitica): se le cause di giustificazione imposte dalla necessità fossero in fondo davvero più “regole di giudizio” che “regole di condotta”, il centro decisionale si sposterebbe definitivamente dal potere legislativo a quello giudiziario. Il che precluderebbe un utilizzo partitico di quegli istituti, orientato al soddisfacimento immediato della sensazione d’insicurezza.

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Al di là del carattere condivisibile, o meno, dell’osservazione qui fatta sulla legittima difesa come (solo) apparente “regola di condotta”, da un’analisi franca del fenomeno emerge che le modifiche legislative di Alfredo Rocco all’impostazione di Zanardelli, così come tutte le presunzioni legislative emerse nel nuovo Millennio, sembrano figlie dei medesimi equivoci. Uno ha a che vedere col fatto che i Codici penali “generali” non sono adatti per creare discipline ipertassative e dettagliate (delle quali però, oggi, sentiamo sempre di più l’esigenza). L’altro, invece, riguarda l’intramontabile speranza di trasformare i giudicanti in meri esecutori, ingessando in via esclusivamente legislativa la distinzione tra reazione (legittima), azione/omissione (illecita) ed eccesso (punibile)[36].

 

 

 

[1] Per tutti, sia consentito, anche per quanto concerne le molte indicazioni bibliografiche (alle quali si rinvia integralmente), indicare il nostro F. Diamanti, Appunti sulla legittima difesa. Una questione politica, Torino, 2020. Si segnala, di recente, la recensione del medesimo libro (e di altri) realizzata da A. Sbarro, Tradizioni, ideologie e violenza di genere: la legittima difesa come spazio, limite e soluzione. Alcune riflessioni sui contribuiti di Siciliano, Della violenza nel diritto penale fascista. Il caso della legittima difesa a tutela del patrimonio, Bari, 2023; Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Milano, 2022; Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, Torino, 2020, in AP, 3/2024, 1 ss.

[2] Così già H. Welzel, Die Regelung von Vorsatz und Irrtum im Strafrecht als legislatorisches Problem, in ZStW, 67, 1955, 196 ss., spec. 210-211. Trattiamo questo argomento anche nel nostro F. Diamanti, Scriminanti incomplete e giudizi controfattuali. Contributo a uno studio sull’imputazione normativa dell’illecito, Torino, 2019, 24 ss.

[3] F. Diamanti, Appunti sulla legittima difesa, cit., 23 ss.

[4] Sul concetto di “contesto di liceità” e sulle conseguenze dell’accoglimento di un tale fatto giuridico, cfr. F. Diamanti, Scriminanti incomplete e giudizi controfattuali, cit., 73 ss.

[5] In senso fortemente critico sull’opportunità di torturare in ogni caso, anche davanti a un terrorista che ha appena piazzato una bomba a orologeria in un aeroporto, si v. il lavoro di K. Volk, La normativa di contrasto al terrorismo in Germania, in Studi urbinati, n. 58/4, 2007, 257 ss.

[6] Si rinvia ancora al nostro Appunti sulla legittima difesa, cit., 17 ss.

[7] D. Siciliano, Das Leben Des Fliehenden Diebes: Ein Strafrechtliches Politikum, 2. ed., Frankfurt am Main, 2013, 2 ss., recensito in F. Diamanti, Vita, patrimonio e difesa legittima. la vita del ladro in fuga. Recensendo la seconda edizione del volume di Domenico Siciliano: Das Leben des fliehenden Diebes: Ein strafrechtliches Politikum, Peter Lang, Frankfurt am Main, 2013, in Dir. pen. cont., 30 ottobre 2014, 1 ss.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] D. Siciliano, Per una genealogia della legittima difesa: da Carrara a Rocco, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, vol. 35/2006, 723 ss.

[11] D. Siciliano, Della violenza nel diritto penale fascista. Il caso della legittima difesa a tutela del patrimonio, Bari, 2023.

[12] D. Siciliano, Della violenza nel diritto penale fascista, cit., 16.

[13] Ivi, 21 ss. con riferimento, ad esempio, ai dibattiti sul Codice penale toscano (1853) e sardo (1859) e altri codici penali preunitari. 

[14] Ivi, 29 ss., sulla teorica della “coazione” di Giovanni Carmignani.

[15] Ivi, 61 ss.

[16] Ivi, 131 ss.

[17] Ivi, 29.

[18] Ivi, 44.

[19] Ivi, 50, 52.

[20] Ivi,  57.

[21] Ivi, 67 ss.

[22] Ivi, 69.

[23] Ivi, 69 e 70.

[24] Ivi,  81 e 82.

[25] Ivi,  100 ss.

[26] Ivi,  102 ss.

[27] Ivi,  104.

[28] Ivi,  107 e 108.

[29] Ivi,  155 ss.

[30] Ibidem.

[31] F. Diamanti, Appunti sulla legittima difesa, cit., 72 ss., spec. 76.

[32] Abbiamo di recente provato a descrivere questa particolare incidenza della tecnica legislativa sul contenuto sostanziale dei diritti (scriminanti) e delle incriminazioni nel nostro F. Diamanti, Diritto penale alimentare e tecnica legislativa. Uno studio sulla decodificazione, Torino, 2024, passim, spec. 145 ss., 285 ss.

[33] Ivi, 23 ss.

[34] Ivi, 115 ss. Poi, anche per una proposta d’interpretazione del nuovo art. 55, comma 2, c.p., si v. il nostro F. Diamanti, voce Eccesso colposo, in Enc. Dir., I Tematici: Reato colposo, M. Donini (diretto da), Milano, 2021, 439 ss., spec. 460 ss.

[35] W. Beulke, Anmerkung zu BGH v. 21.6.1989 – 3 StR 203/89, in JR 1990, 380 ss., spec. 382; A. Sinn, Die Notwehr als Lotteriespiel, in Fest. Beulke, Heidelberg, 2015, 271 ss.

[36] Come ricorda correttamente Domenico Siciliano al termine della profonda e altamente istruttiva opera appena recensita, quando il fascismo nel 1927 propose l’estensione del diritto di difesa a tutti i beni giuridici – cambiando impostazione rispetto allo Zanardelli e legittimando così, quantomeno a livello strettamente lessicale, l’eliminazione fisica in protezione di beni materiali – i giudici della Suprema Corte di cassazione penale interpretarono una simile scelta come un «pericoloso attacco al monopolio statale della violenza legittima» (cfr. D. Siciliano, Della violenza nel diritto penale fascista, cit., 182-183). Proprio da lì presero vita tutte quelle interpretazioni giurisprudenziali “liberali” dell’art. 52 c.p. che, nonostante l’inevitabile genericità del suo contenuto, l’avrebbero resa una delle disposizioni meglio equilibrate del Codice penale (cfr. F. Diamanti, Appunti sulla legittima difesa, cit. 11). Le stesse interpretazioni liberali che sarebbero risultate dominanti sino alla fine del Novecento, ma  le cui estremizzazioni, in assenza di una disciplina equilibrata dell’eccesso incolpevole, avrebbero gettato le basi per il ritorno di quell’approccio politico di matrice securitaria, tipico del nuovo Millennio (Ivi, 17 ss. e passim).



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