Il Pd conta sul leader del M5S, perché senza di lui fra 4 anni rischierebbe di consegnare la presidenza della Repubblica al centrodestra. Così i dem cercano la formula per assicurarsi l’alleanza
Il Pd conta su Conte, perché senza di lui fra quattro anni rischierebbe di consegnare la presidenza della Repubblica al centrodestra. E un conto è Palazzo Chigi, altra cosa il Quirinale. C’è un motivo se i partiti di maggioranza si sono mossi in largo anticipo sulla legge elettorale e se simultaneamente i democratici stanno cercando un modo per tenere il Movimento 5 Stelle in coalizione. Le prossime urne infatti non decideranno solo chi guiderà il governo, ma segneranno anche i rapporti di forza in Parlamento in vista della corsa al Colle. Perciò il centrosinistra non può fare a meno di Conte, altrimenti per la prima volta nella storia della Repubblica dovrebbe rassegnarsi all’elezione di un capo dello Stato di centrodestra. Cadrebbe così l’ultimo tetto di cristallo.
E il Pd già vede le prime crepe, perché sa che il leader di M5S sta maturando l’idea di andare da solo al voto. È vero che mancano più di due anni all’appuntamento, ma in politica è come se mancassero sei mesi. Perciò Franceschini è uscito allo scoperto, per anticipare Conte ed evitare il divorzio. La sua proposta di alleanza ai post-grillini, quel «marciare divisi per colpire uniti», è segno di una manovra in emergenza. La mossa non è stata estemporanea: l’intervista a Repubblica dell’ex ministro della Cultura, come le repliche dei pentastellati Patuanelli e Baldini, erano concertate per mettere in sicurezza la futura intesa.
Era scontata la reazione nel Pd, perché quel modello di alleanza abolisce la figura del «federatore» e mette fine al sogno di quanti ambiscono a diventarlo. E come al solito i democratici si sono divisi: da una parte il blocco di Prodi e Bindi, che Franceschini chiama «i puristi»; dall’altra il blocco dei «realisti» guidato da Schlein, che è intenzionata a insistere sull’idea del campo largo, così da scaricare sul capo di M5S la responsabilità dell’eventuale rottura. Ma agli occhi di Franceschini sono tutti giochi tattici, perché a suo dire «un’alleanza strutturata con Conte che preveda un programma comune, un simbolo in comune e comizi in comune, è praticamente impensabile».
Il dirigente dem ne ha parlato nei giorni scorsi con alcuni parlamentari del suo partito, che a un certo punto gli hanno fatto notare come nella prossima legislatura il Parlamento voterà per il nuovo capo dello Stato. «Tra l’altro…», si è limitato a commentare Franceschini, lasciando trasparire le ragioni più profonde della sua iniziativa. La posta in gioco nel 2027 non sarà tanto Palazzo Chigi ma il Quirinale, che cambierà inquilino due anni dopo. Ecco la linea Maginot che il centrosinistra deve provare a difendere. E tutto passa per la costruzione di un progetto che si sbarazzi del totem ulivista e tenga insieme (senza farlo) da Renzi fino a Fratoianni, «perché altrimenti Conte con noi non si allea. L’hanno capito o no?».
Ai tempi della Dc si diceva che «il giorno dopo l’elezione di un capo dello Stato si comincia a lavorare su chi sarà il suo successore». Negli ultimi casi è andata diversamente, ma chi viene dalla scuola scudocrociata non ha smarrito quella lezione. Casini, per esempio, tempo addietro ha parlato dell’argomento in una pausa dei lavori del Senato e dinnanzi alla domanda del suo interlocutore ha risposto sorridendo: «Mio caro, la prossima volta potrebbe accadere che un monarchico diventi presidente della Repubblica». La battuta era riferita al ministro degli Esteri Tajani, ma soprattutto avvertiva del possibile storico passaggio del Quirinale a un rappresentante del centrodestra.
E allora Conte serve come l’aria al centrosinistra, perché — anche se gli avversari tornassero a vincere alle Politiche — grazie al «modello Franceschini» il centrodestra avrebbe molti meno seggi di oggi in Parlamento e non potrebbe scegliersi da solo il capo dello Stato. Il leader di M5S è centrale nel gioco di Palazzo, accerchiato dal Pd che lo lusinga e dai grillini senza più Grillo che non vogliono «donare il sangue ai democratici» e spingono per andare da soli alle urne.
Mercoledì scorso il forzista Mulè ha incrociato un collega del Pd in Transatlantico: «Avete la sindrome da specchio di Biancaneve. Ma mentre vi piace guardarvi, fate i conti senza la oste». Cioè Meloni, decisa a varare un sistema di voto che obblighi l’indicazione del candidato premier per una coalizione. A quel punto l’artificio elettorale pensato da Franceschini salterebbe. In tal caso sarebbe pronto a studiare un’altra diavoleria. Perché in ballo non c’è il ruolo di federatore o la segreteria del Pd ma il Quirinale.
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