La voce del diavolo, il nuovo libro su arte contemporanea e moda

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L’arte del vestire ha sedotto il corpo per liberarlo da disagi e inibizioni, lo ha spinto oltre i suoi limiti per urlare al mondo «la voce del diavolo», come scriveva William Blake: lo ha protetto con cura per reciderlo dai lacci della morale e del perbenismo. È quanto si legge sulla quarta di copertina de La voce del diavolo. L’arte contemporanea e la moda, il nuovo libro di Fabriano Fabbri edito da Einaudi. L’autore insegna Stili e arti del contemporaneo, Forme della moda contemporanea e Contemporary fashion all’Università di Bologna, cimentandosi da tempo nella stesura di monografie su moda e arte. Adesso, ha deciso di rileggere la storia di quest’ultima, dalla fine del Settecento agli anni Duemila, usando come metronomo le evoluzioni del guardaroba di ieri e di oggi, fra i tumulti della tecnologia e le tempeste della rivoluzione sessuale. Artribune l’ha intervistato.

La voce del diavolo: l’intervista all’autore Fabriano Fabbri

Cos’è “La voce del diavolo”?
Un saggio che cerca di manifestare l’intensità dei rapporti tra arte e moda partendo da un titolo che viene da William Blake e che si può associare allo strato subconsciale delle cose.

Copertina di La voce del diavolo. L’arte contemporanea e la moda, di Fabriano Fabbri edito da Einaudi

Perché questo titolo?
Ha ovviamente varie ricadute. Verso la fine del Settecento, dopo il Rococò in sostanza, quando l’armadio era costituito dai corpetti, arriva lo stile Impero che invece caldeggia morfologie fluide che lasciano libero il corpo. Sono gli anni della prima rivoluzione sessuale, in cui gli artisti dell’epoca rifiutano la prospettiva e rifiutano l’idea di rappresentare la natura, lo spazio così com’è. Penso a Fragonard, all’altalena: rappresentazioni molto di superficie di un’aristocrazia che non ha certo pensieri.

Invece dopo?
Chi viene immediatamente dopo guarda la dimensione del profondo, non più la realtà, ma l’incubo. Ci sono Goya, i capricci o le pitture oscure dedicate all’esaltazione del demonio, delle streghe, dando grande ispirazione a Balenciaga che si addentra con l’immaginario proprio lì. Pensa anche a Paul Gauguin che dalla Polinesia importa il pareo, un tessuto che si appoggia sul corpo e che lascia il corpo stesso libero di muoversi con grande agilità. Tanto è vero che proprio Paul Gauguin vive gli ultimi mesi della propria vita in una casa che si chiama la Maison du Jouir, cioè la casa del piacere.

Ti poni l’obiettivo di rileggere la storia dell’arte dalla fine del Settecento agli anni Duemila di pari passo alla moda. Ce l’hai fatta?
Ho fornito degli strumenti per interpretare. Per esempio, ho insistito molto su tutti coloro che rivisitano la tradizione e quelli che inventano nuove forme e modalità di rappresentazione dello spazio. Le avanguardie hanno superato la tela, sconfinato usando il corpo e lo spazio. Lo stesso hanno fatto i couturier lavorando su una silhouette che rivede la propria anatomia, portando alle invenzioni meravigliose tipiche dei giapponesi.

Come hai strutturato i tuoi studi, la tua ricerca e di conseguenza il tuo libro?
Vengo dall’arte contemporanea, ma da molti anni, oramai quasi 20, insegno. Non ho fatto altro che applicare la griglia dell’arte contemporanea ai fenomeni che riguardano l’arte degli stili e l’estetica. Però, ciò prevede l’apporto di altre discipline, quasi sempre più popolari. Questo libro è infittito di riferimenti musicali, c’è una playlist di musicisti e grandi gruppi musicali che aiutano a spiegare qual è il fondamento di un abito e di una corrente artistica.

Possiamo dire che questo libro tratti anche del legame tra moda e società…
Ogni volta che parli di un fenomeno estetico, culturale, sia esso legato all’arte, alla moda, al design o all’architettura, è chiaro che parli sempre della dimensione antropologica. Mettendo insieme queste cose, il ritratto della società che ne viene fuori è il ritratto di una società che da un lato cerca armonia, costruzione, razionalità con Chanel. E dall’altro c’è una linea di ricerca che, pensiamo al futurismo e a Kandinsky, investe su un’idea di società che crede in uno sbocco energetico. Proprio nella voce del diavolo.

Sei giunto alla conclusione che l’arte del vestire abbia “liberato l’uomo dai lacci della morale e del perbenismo”?
Succede ahimè a cicli. Quando la moda è moda di ricerca, è chiaro che in qualche modo si rifiuta al conformismo. Dentro questo contenitore, c’è chi insegue la diversità mescolando i registri, ispirandosi a materie che sono ribollenti, primitive. C’è poi una moda che il corpo lo stratifica, ma sempre ambendo al diverso, e chi lo fa ricercando morfologie che sono più sotterranee e materiche. Quindi non so se l’arte ci sia riuscita, ma la morale diciamo che fa del suo meglio. La voce del padrone non riesce mai ad avere la meglio sulla voce del diavolo.

Perché scrivere questo libro?
Perché tutti i libri, tanti e anche molto interessanti, che leggo sull’arte e sulla moda ragionano su criteri di collaborazione diretta tra stilista e artista.

E perché leggerlo?
Questo libro è concepito con un trattamento linguistico e con un trattamento di contenuti dove i vari capitoli sono legati gli uni agli altri, come se ci fosse una specie di narrazione. Percepisci una costante battaglia, in modo tale che ogni pagina sia legata all’altra, come in uno sviluppo consequenziale.

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Sei d’accordo con chi dice che la moda sia una forma d’arte?
Assolutamente sì, potrei ripeterti questa espressione per mille volte. Non perché l’arte del vestire sia un’arte in sé, cosa di cui sono convintissimo. E non mi interessa che sia commerciabile, anche gli ABBA lo sono. Ma non riesco a capire perché si debba ragionare con quest’idea di arte inarrivabile. E non riesco a capire per quale motivo la moda non debba essere considerata arte. Da un’opera di Moschino riesci ad agganciare tutto quello che succede nella cultura circostante. Quando un oggetto estetico ti dimostra una tale intensità, una tale possibilità di aggancio con altre discipline, ecco, lì sei già in presenza di un oggetto artistico.

Giulio Solfrizzi

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