Il Congo, insanguinato dallo scontro tra Usa, Ue e Cina

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Pagine Esteri – Dopo l’occupazione di Goma, capoluogo della provincia congolese del Nord Kivu, le milizie filo-ruandesi e quelle schierate contro il governo di Kinshasa stanno proseguendo l’avanzata nel Sud Kivu verso Bukavu.

Dopo un iniziale sbandamento dell’esercito congolese, aggravato dalla decisione di circa 300 mercenari, per lo più romeni, di arrendersi ai ribelli e di consegnargli le loro armi, sembra che le truppe di Kinshasa stiano ora reagendo con maggiore determinazione.

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A sostenere l’esercito regolare del Congo ci sono le milizie locali della “Coalizione Wazalengo” e le truppe del Burundi (rivale storico del Ruanda). Sul campo sono schierate anche le truppe dell’Uganda, che in teoria dovrebbero contribuire alla stabilità del Congo ma sembrano più interessate a impossessarsi di una parte del paese.

Al contrario, i caschi blu della Monusco e i militari inviati dalla Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe, formata da Malawi, Sudafrica e Tanzania, non sono stati in grado di frenare l’avanzata delle milizie ribelli.

Negli ultimi giorni sia il dittatore ruandese Paul Kagame sia i leader ribelli hanno pronunciato parole di fuoco nei confronti della presenza militare sudafricana in Congo, dopo che nei giorni scorsi 14 soldati di Pretoria sono stati uccisi negli scontri.

Dopo che il presidente del Congo, Felix Tshisekedi, ha fatto appello alla mobilitazione generale per contrastare l’avanzata dei ribelli sostenuti dal Ruanda, uno dei leader dell’M23 ha chiarito che il suo movimento intende rovesciare il governo. «Vogliamo andare a Kinshasa, prendere il potere e guidare il paese» ha detto Corneille Nangaa.

Intanto nelle aree dove si combatte l’emergenza umanitaria è sempre più grave. Gli scontri e i saccheggi hanno causato finora un migliaio di morti e molte migliaia di feriti, che intasano gli ospedali incapaci di far fronte alla situazione. Il coordinatore umanitario dell’Onu in Congo, Bruno Lemarquis, ha affermato che nella regione di Goma mancano cibo, acqua e medicine, e molti abitanti della zona, insieme a 6 milioni di persone già sfollate da altri territori, sono allo sbando.

Le radici etniche e politiche del conflitto
L’M23 – che prende il nome dalla data (il 23 marzo del 2009) in cui fu firmato uno dei tanti inconcludenti accordi di pace nella regione – è composto in gran parte da membri dell’etnia Tutsi, che affermano di aver dovuto imbracciare le armi per difendersi.

Il gruppo armato è nato nel 2012 e nel corso di un’insurrezione contro il governo centrale, sostenuta dal Ruanda, ha rapidamente conquistato una parte del paese prima di essere sconfitto dall’esercito congolese. Molti suoi membri accettarono di essere integrati nelle forze armate di Kinshasa, ma nel 2021 la milizia si è ricostituita finché nei mesi scorsi ha scatenato l’offensiva attualmente in corso.

Una delle cause fondamentali della permanente instabilità del Congo – i vari conflitti nel paese hanno coinvolto anche gli stati confinanti provocando negli ultimi decenni milioni di morti a causa dei combattimenti ma soprattutto della malnutrizione e delle malattie, al punto da far parlare di “Guerra Mondiale africana” – va ricercata nel genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu del Ruanda nel 1994, che uccisero anche un gran numero di esponenti della propria stessa etnia.
Una parte dei Tutsi membri dell’M23 provengono dal Ruanda e si sono rifugiati nelle regioni orientali del Congo per sfuggire alle persecuzioni nel loro paese.

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Quando in Ruanda, nel 2000, si impose il regime di Paul Kagame, tuttora presidente del piccolo paese e appartenente all’etnia Tutsi, furono molti Hutu a cercare rifugio nella Repubblica Democratica del Congo, alimentando le tensioni con i Tutsi e tra i due paesi.
Dopo 30 anni di conflitto, il maggiore dei gruppi Hutu, le “Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda”, rimane attivo nelle regioni orientali del Congo.

Il regime del Ruanda accusa il governo congolese di emarginare i Tutsi e descrive le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda come una “milizia genocida” e una minaccia diretta. Anche se Kigali continua a negare il proprio coinvolgimento diretto, i rapporti delle Nazioni Unite stimano che 4000 soldati ruandesi siano in territorio congolese al fianco dell’M23.

La competizione per le risorse
Il conflitto che insanguina il Congo e che sta mettendo a dura prova la resistenza delle sue istituzioni affonda quindi le radici nelle contese etniche interne e nella durevole conflittualità tra i paesi dell’area.

Ma l’escalation di una guerra che dura da decenni è anche la conseguenza della feroce competizione tra attori locali e regionali per lo sfruttamento delle enormi ricchezze celate nel sottosuolo, stimate in 24 mila miliardi di dollari. Oltre ai movimenti già citati in Congo sono attivi un’ottantina di gruppi armati ribelli, ognuno dei quali cerca di accaparrarsi i proventi delle risorse naturali – cobalto, rame, litio, oro, diamanti – di cui è ricca soprattutto la regione orientale del Congo.

Il Congo è il più grande produttore di cobalto – fondamentale per la realizzazione delle batterie dei veicoli elettrici – al mondo, con una produzione che nel 2022 ha raggiunto le 130 mila tonnellate, quasi il 70% del minerale prodotto a livello mondiale.
La Repubblica Democratica del Congo possiede grandi riserve di litio – un altro elemento essenziale per la produzione di batterie – che finora sfrutta in minima parte, ed è inoltre il quarto produttore di diamanti industriali, con una produzione annua di 4,3 milioni di carati.
Il sottosuolo congolese nasconde grandi riserve di coltan, un minerale da cui si estrae il tantalio, utilizzato per produrre componenti elettronici come cellulari, computer e dispositivi medici.
Il paese vanta poi alcune delle riserve di rame di qualità più elevata al mondo e ne è il secondo produttore mondiale, e anche l’estrazione dell’oro ha subito negli ultimi anni un’accelerazione. Complessivamente, la produzione di risorse minerarie ammontava nel 2021 a un milione di tonnellate.

Nonostante le enormi ricchezze teoricamente a disposizione, però, la maggior parte della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la lotta per lo sfruttamento di metalli e terre rare ha provocato, in assenza di una struttura statale forte e a causa di una forte ingerenza da parte di potenze regionali e internazionali, una drammatica balcanizzazione del Congo.

Il Congo, perno degli investimenti cinesi in Africa
Negli ultimi decenni la Cina ha fatto del Congo l’epicentro dei suoi investimenti di Pechino in Africa, riuscendo a rimpiazzare in molti casi le multinazionali statunitensi nello sfruttamento delle sue ricchezze naturali. Imprese cinesi sono riuscite ad accaparrarsi l’estrazione e la commercializzazione soprattutto del rame e del cobalto. Secondo l’Istituto di studi strategici (Ssi) dell’Us Army War College, le imprese statali e le banche cinesi controllano circa l’80% della produzione totale di cobalto congolese. Delle dieci miniere più grandi al mondo, nove si trovano nella regione del Katanga, nel sud del paese africano, e metà sono di proprietà di imprese cinesi.
Quasi il 70% del cobalto raffinato utilizzato dalla Cina proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, e comunque le imprese statali di Pechino producono circa tre quarti del cobalto raffinato utilizzato a livello mondiale. Anche la maggior parte dell’estrazione dell’uranio è in mano a società cinesi.

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La posizione dominante della Cina è il risultato di una politica di investimenti nelle infrastrutture del paese che ha una lunga storia e che è stata rilanciata nell’ambito del progetto strategico della “Nuova Via della Seta”. A settembre Pechino ha siglato un accordo con i governi coinvolti per modernizzare la ferrovia, lunga 1860 km, che collega la città zambiana di Kapiri Mposhi al porto tanzaniano di Dar es Salam. Il percorso fu realizzato negli anni ’70 del secolo scorso, grazie ad un prestito di Pechino, per permettere il trasporto del rame e del cobalto estratti in Zambia fino alla costa della Tanzania, aggirando così il Sudafrica e l’ex Rhodesia (poi Zimbabwe). Grazie allo stanziamento di un miliardo di dollari da parte di Pechino, la ferrovia potrebbe permettere il trasporto, fino ai terminal sull’Oceano Indiano, anche del minerale estratto nella regione congolese del Katanga.

La Cina inoltre fornisce all’esercito congolese armi ed equipaggiamenti, e i militari di Kinshasa stanno cercando di contrastare l’avanzata dell’M23 con i droni cinesi, mentre le aziende di Pechino hanno contribuito a costruire il quartier generale dell’esercito e una base navale.

Al contrario del suo predecessore Joseph Kabila, al quale è subentrato nel 2019, il presidente congolese Tshisekedi ha deciso però di ridurre l’influenza cinese. Pur avendo siglato nuovi accordi con Pechino, Tshisekedi ha siglato anche un accordo di cooperazione militare con Washington ed ha ottenuto dalla Cina di rinegoziare la restituzione di un prestito di 6 miliardi di dollari.

Per tutta risposta, la Cina ha aumentato gli investimenti in Ruanda – soprattutto in settori come l’agricoltura e l’edilizia – ed ha deciso di elevare il livello delle relazioni con Kigali al rango di partenariato strategico.

Mercenari romeni si arrendono alle truppe ruandesi

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Stati Uniti ed Unione Europea saccheggiano il Congo
Se la Cina sembra giocare su due tavoli per evitare di rimanere tagliata fuori, anche gli Stati Uniti e l’Unione Europea tengono il piede in due staffe. Sia Washington sia Bruxelles hanno deciso di finanziare un percorso ferroviario lungo 1300 km, noto come “Corridoio di Lobito”, che dovrebbe collegare le regioni minerarie del Congo e dello Zambia al porto angolano di Lobito, sull’Oceano Atlantico. Si tratta, com’è evidente, di un progetto antitetico a quello sponsorizzato da Pechino.
Però i tempi per la realizzazione del corridoio sono molto lunghi, e inoltre USA e UE hanno offerto al Ruanda un coinvolgimento nell’infrastruttura in cambio della rinuncia al sostegno alla guerriglia dell’M23, scontrandosi con il ‘no’ di Kigali che preferisce investire sulla realizzazione di una ferrovia che colleghi il paese al porto tanzaniano di Isaka.

Apparentemente Washington mira a ridurre l’instabilità nella regione africana dei Grandi Laghi, ma in realtà ha contribuito a spingere Kigali e il M23 – che dipende in tutto e per tutto dal Ruanda – a scatenare l’offensiva in Congo, decidendo di non varare alcuna seria sanzione né contro il piccolo ma aggressivo paese né contro il suo dittatore.

Come se non bastasse, nel febbraio 2024 l’Unione Europa ha firmato un memorandum d’intesa con il Ruanda e con la Repubblica Democratica del Congo per incentivare la raffinazione di oro, coltan e tantalio con la scusa di “favorire lo sviluppo sostenibile delle materie prime critiche”. Contemporaneamente la britannica Power Resources International ha annunciato la realizzazione di una raffineria di coltan a Kigali.

Un atteggiamento neutrale, apparentemente. Ma mentre il Congo è tra i principali produttori mondiali di certi minerali, il Ruanda ne possiede pochi o per niente, e quindi gli accordi con i paesi occidentali mirano all’accaparramento delle materie prime trafugate nelle regioni orientali di Kinshasa dalle milizie al soldo del Ruanda che con i proventi finanziano sé stesse e il regime di Kagame, garantendo a USA e UE l’afflusso di preziose risorse a buon mercato che altrimenti prenderebbero la via della Cina.

D’altronde negli ultimi anni, in particolare dal 2021, il Ruanda si è legato molto all’occidente, firmando ad esempio un accordo con il governo conservatore di Londra che prevedeva la deportazione a Kigali dei rifugiati illegali provenienti da diversi paesi.

Da parte sua la Francia ha deciso di finanziare (grazie a fondi messi a disposizione dall’Unione Europea) lo schieramento di un contingente di truppe ruandesi nell’area di Cabo Delgado in Mozambico, dove la multinazionale transalpina Total sfrutta un grande giacimento di idrocarburi minacciato dagli attacchi di milizie jihadiste.

Il regime di Kagame, secondo il governo congolese, utilizza i fondi europei per finanziare l’M23. Quando Kinshasa ha chiesto ai paesi occidentali di sanzionare e bloccare la vendita dei minerali estratti illegalmente nelle regioni occupate dalle milizie filo-ruandesi, né Bruxelles né Washington hanno acconsentito.

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Non deve quindi stupire che mentre l’M23 avanzava nel Nord Kivu e occupava Goma, migliaia di manifestanti congolesi abbiano assaltato le ambasciate degli Stati Uniti, della Francia e del Belgio, accusati di non far nulla per bloccare l’aggressione ruandese se non di sostenerla.

A difesa dell’integrità territoriale del Congo si sono invece fortemente schierati gli Emirati Arabi Uniti che rappresentano il secondo partner commerciale del paese dopo la Cina, forti importatori di minerali e fornitori a Kinshasa di armi e tecnologie. Pagine Esteri

* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive anche di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con Pagine Esteri, il Manifesto, El Salto Diario e Berria





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