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La trincea è sui banchi di scuola
Nell’Europa attraversata in questi anni funesti da conflitti sociali, politici e finanche militari, se si considerano i sanguinosi eventi bellici che hanno coinvolto Russia e Ucraina, il mondo della scuola è diventato anch’esso teatro di violente tensioni. E il Cinema questo pare averlo capito. Trasformandolo, all’occorrenza, in eccellente metafora di una società fortemente divisa.
Il caso più eclatante è senz’altro l’amarissimo, nonché assolutamente centrato lungometraggio diretto nel 2023 da İlker Çatak, scelto poi l’anno successivo per rappresentare la Germania nella categoria dell’Oscar al miglior film in lingua straniera, ovvero La sala professori (Das Lehrerzimmer). Ma se la scuola tedesca piange, quella magiara non ride. L’Ungheria è, al contrario, la nazione dove in tempi recenti si è posto più spesso l’ambiente scolastico al centro di progetti cinematografici, che, attraverso determinati “conflitti di classe” (da intendersi magari qui sia in senso marxista, che più prosaicamente quale lotta interna alle aule), sembrano alludere in maniera decisa allo strisciante autoritarismo contestato al paese d’appartenenza. Solo per presentare i casi più emblematici, passati entrambi peraltro nel 2023 al Trieste Film Festival, ci limitiamo a citare il fin troppo programmatico dramma adolescenziale di Gábor Reisz, Explanation for Everything (Magyarázat mindenre), assieme al ben più incisivo Without Air (Elfogy a levegő, 2023) di Katalin Moldovai: film teso come una corda di violino, quest’ultimo, illuminante quanto qualsiasi opera sottolinei i rischi insiti nel porre stretti vincoli ideologici all’istruzione e al percorso formativo delle nuove generazioni.
A rinverdire questa tradizione tutto sommato recente è sopraggiunto, nell’edizione datata 2025 del Trieste Film Festival, un altro film ungherese: Lesson Learned (Fekete pont, 2024) di Bálint Szimler, la cui drammaturgia pressoché perfetta ha saputo colmare di suggestioni profonde sia il pubblico triestino che gli addetti ai lavori.
Premiatissimo a Trieste
Non è un caso, quindi, che tale opera cinematografica proprio al 36° Trieste Film Festival abbia raccolto diversi riconoscimenti. In primis il Premio Cineuropa al miglior lungometraggio in concorso, assegnato dall’unico giurato Viktor Toth proprio a Lesson Learned, poiché per lui questo film è: “Un’opera prima raffinata, che nel suo microcosmo controbilancia l’angoscia dei temi alla serenità ed il senso dello humour emanati dalla forma, superando così le difficoltà finanziarie e politiche di produzione”.
Dal canto suo la giuria del Premio Trieste composta da Sabine Gebetsroither, Ilinca Manolache e Paolo Moretti, dopo aver premiato quale miglior lungometraggio d’esordio Toxic della lituana Saulė Bliuvaitė, ha voluto attribuire una Menzione Speciale al già menzionato film ungherese con la seguente motivazione: “Il regista, che desideriamo celebrare, presenta una scuola come un microcosmo di una società più ampia — quella dell’Ungheria contemporanea — mettendone a nudo i valori prevalenti e le tendenze politiche. L’autenticità delle situazioni in classe e delle dinamiche tra studenti, insegnanti e genitori rende le ingiustizie rappresentate ancora più evidenti e il commento sociale ancora più urgente.”
Una narrazione di qualità
Questa seconda motivazione entra ancor più nello specifico di una narrazione corale che, con modalità ora più sottili e ora decisamente dirette, esplicite, chiama in causa alunni, genitori, insegnanti e personale non docente, rendendoli tutti partecipi di un degrado che pare allignare ovunque; laddove solidarietà ed empatia, retaggi sempre più sbiaditi, affogano nel cinismo di un’istituzione scolastica resa ancora più asettica da quell’impronta neo-liberista che l’attuale quadro socio-politico purtroppo propone, nel mesto declino di tutte le garanzie offerte un tempo dallo stato sociale. E questo a ben vedere può valere per l’Ungheria, come per gran parte dei paesi europei.
Il “casus belli” è offerto comunque dal rientro in patria della famiglia di Palkó, giovanissimo scolaro che proiettato all’improvviso nel sistema educativo ungherese ne diviene subito vittima: assuefatti alle rigide regole della scuola, applicate da insegnanti tanto svogliati quanto umorali, dittatoriali e all’occorrenza violenti, gli stessi compagni di classe gli volteranno presto le spalle, spalleggiati in questo da famiglie che a volte sono semplice controcanto del clima di prepotenza diffuso. A sostenere realmente il bambino vi è solo un’insegnate giovane e dalla mentalità più aperta, Juci, che finirà però per assumersi tutto il peso di questa sua “diversità”, venendo bullizzata a sua volta da colleghi meno capaci ma incredibilmente arroganti.
Nel concepire uno spaccato così amaro il regista Bálint Szimler non ha indovinato soltanto la caratterizzazione dei personaggi, ma anche i toni, la forma, severa e rigorosa nel lasciare spazio alla denuncia e comunque ariosa, sottilmente ironica, capace di costruire ipotetici spazi di libertà. Come si evince da quella fuga sull’albero del giovanissimo ribelle, che verso la fine ha saputo strapparci un sorriso, facendoci pensare addirittura a Calvino; o come traspare dall’allusivo intermezzo teatrale, quasi una cesura nell’economia del lungometraggio, allorché gli studenti sono chiamati a mettere in scena, per la recita scolastica, una poco nota tragedia rinascimentale di Miguel de Cervantes intitolata El cerco de Numancia. Alquanto grottesco vedere gli scolari nei panni di antichi Romani e Celtiberi, ma forse quel disperato grido di libertà è destinato a risuonare, con tutte le differenze del caso, anche oggi.
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