È una delle facce con cui si manifesta la violenza istituzionale, ancora costante in molti tribunali. Il rifiuto di un minore di incontrare il padre è stato spesso attribuito all’atteggiamento manipolativo della madre. Una condizione mai riconosciuta dalla comunità scientifica, ma che alimenta stereotipi e pregiudizi, come denunciano le associazioni
Non credute perché donne, non credute perché madri. Quando la violenza di genere non viene riconosciuta e gli stereotipi sessisti provengono anche dalle istituzioni che dovrebbero proteggerle, le donne che denunciano i maltrattamenti del par tner subiscono violenza ancora una volta.
Si chiama violenza istituzionale e
nelle sue molte forme è una costante nei tribunali italiani. Secondo le rilevazioni, si verifica di frequente nei casi di separazione, in cui la donna che accusa il padre dei suoi figli di violenza domestica viene a sua volta accusata di voler screditare il partner. «Se le madri dichiarano la violenza subita per chiedere protezione o testimoniano la paura dei figli nell’incontrare il padre – spiega l’associazione Donne in rete contro la violenza (Dire) – rischiano di essere considerate alienanti, vendicative o alla ricerca di vantaggi economici».In questi casi, il rifiuto di un minore di incontrare il padre è stato molto spesso attribuito al fatto che la madre ha un atteggiamento manipolativo nei confronti del figlio, una condizione definita come sindrome di alienazione parentale. Su questa valutazione, fornita dai consulenti tecnici di ufficio, si basa in molti casi la decisione dei giudici di riconoscere l’affido dei figli al padre, anche se accusato di violenza.
La sindrome dell’alienazione parentale tuttavia non è mai stata riconosciuta dalla comunità scientifica. Anzi, Onu e parlamento europeo si sono espressi contro l’uso di questo costrutto, considerato punitivo nei confronti delle donne, che non vengono credute quando tentano di denunciare gli abusi del partner.
Dietro l’utilizzo di questa formula, una risoluzione del parlamento europeo ha riconosciuto la presenza di pregiudizi e stereotipi che spesso portano a dare una risposta inadeguata alla violenza, impedendo alla madri di ottenere l’affidamento o limitandone i diritti di genitore.
La riforma Cartabia
Nel 2022, la riforma della giustizia Cartabia ha stabilito che, per valutare l’esistenza di condizionamenti dei genitori sui figli nelle indagini, la consulenza psicologica deve basarsi su metodologie e protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica. Anche se di alienazione parentale non si dovrebbe più parlare, dunque, questa accusa a carico delle donne persiste con altri nomi.
Secondo la più recente indagine svolta dall’associazione Dire, nel 2021 solo il 25 per cento delle avvocate intervistate dichiarava che le manipolazioni materne non venivano citate nei processi per decidere a quale genitore affidare un minore.
A distanza di quasi quattro anni, termini come «madre malevola», «adesiva», «simbiotica», «ostativa» sono alcune delle formule più usate dai consulenti tecnici di ufficio per descrivere il rapporto tra madri e figli in un’ottica di manipolazione.
«Con queste espressioni si attribuisce in automatico alla paura del bambino nei confronti del padre un’influenza negativa della madre. Ma se lei sa che il padre è un pericolo e ha paura di lasciargli i figli, la sua è una difesa sana. Questa non può essere condannata, altrimenti la donna paga per i comportamenti del violento», dice Nadia Somma Caiati, consigliera dell’associazione Dire ed esperta di violenza istituzionale.
«Al momento il problema è uscito dalla porta, ma rischia di rientrare dalla finestra, perché l’applicazione dell’alienazione parentale continua, anche se con formule diverse», ammette Valeria Valente, senatrice del Partito democratico che tra 2018 e 2021 ha presieduto i lavori sull’inchiesta parlamentare in tema di violenza istituzionale di genere.
Attualmente si sta occupando di una nuova ricerca dedicata a valutare i risultati della riforma Cartabia, che ha introdotto varie raccomandazioni presentate dalla Commissione parlamentare sul femminicidio: «È stata riconosciuta l’importanza dell’ascolto diretto del minore durante i processi, per comprendere meglio il contesto familiare, e si è deciso di avere sempre più personale specializzato sulla violenza di genere, a partire dai consulenti tecnici».
Sulle conoscenze e sulle opinioni degli psichiatri e degli psicologi incaricati dal tribunale di valutare l’idoneità genitoriale si concentra uno studio realizzato da alcune ricercatrici dell’università di Trieste.
La ricerca mette in luce come la figura paterna sia considerata fondamentale per lo sviluppo sano del bambino, «importanza che risiede più in ciò che il padre simbolicamente rappresenta che in ciò che costui effettivamente fa». Diversi consulenti tecnici intervistati esprimono inoltre pregiudizi misogini nei confronti delle donne, ritenute in generale poco affidabili e disposte a tutto pur di screditare l’ex compagno. Tra le credenze rilevate dallo studio, c’è anche l’idea che le donne siano in parte responsabili delle violenze che subiscono.
Se i casi di manipolazione esistono, vanno tuttavia distinti da quelli che non lo sono. La scarsa formazione sul tema della violenza di genere tra gli addetti ai lavori contribuisce però a creare confusione. L’ultima inchiesta della Commissione parlamentare sul femminicidio rivela infatti che le lacune formative che impediscono di riconoscere la violenza sono comuni anche tra giudici e assistenti sociali.
Una tendenza diffusa risulta così quella di sottovalutare il rischio di affidare i figli a un padre accusato di maltrattamenti. «È ovvio che un’attenzione al recupero delle relazioni va data – dice Nadia Somma Caiati – Ma bisogna analizzare ogni caso. I figli purtroppo sono un formidabile strumento nelle mani degli autori di violenza per mantenere un rapporto con l’ex e continuare a compiere azioni vessatorie, che in molti casi le donne non denunciano più».
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