Il miracolo dell’occupazione è finito. Alla fine del 2024, il numero dei lavoratori è calato in tre trimestri su quattro, toccando poi un nuovo record di ventiquattro milioni e ottantatre mila occupati solo a ottobre, e infine ridursi di diciottomila unità a dicembre. È naturale: la crescita del Pil, dopo la droga dei bonus, è a zero da due trimestri, se consideriamo l’andamento congiunturale, e appena dello 0,5 per cento se il confronto è con il trimestre corrispondente dell’anno precedente.
Non si possono tagliare molte più fette della torta se questa non si ingrandisce, a meno di rimpicciolire ogni porzione, e sappiamo quanto già siano minuscole. Anzi, a dare uno sguardo ai numeri della cassa integrazione probabilmente i numeri dell’occupazione sono anche sopravvalutati, nel 2024 le ore totali di Cig sono aumentate del 21,1 per cento, arrivando a quasi cinquecento milioni, contro le quattrocentonove milioni del 2023. Quanti dei posti oggi congelati in questo modo sono reali e recuperabili?
Non è tuttavia il dato complessivo degli occupati quello più interessante, bensì l’impatto diseguale che il rallentamento della crescita ha sul mercato del lavoro. Chi sono i più colpiti? Non è difficile, sono gli stessi di dieci e venti anni fa: i lavoratori più giovani. Dal 2021 al 2023, il numero dei lavoratori era cresciuto sia nei segmenti degli over cinquanta che in quelli degli under trentacinque e solo tra i trentacinque-quarantanovenni c’erano stati dei cali, anche per motivi demografici. Nel 2024, invece, se l’aumento degli occupati con più di cinquant’anni è proseguito con forza, di ben 377,6 mila unità, nel caso degli under venticinque c’è stato un calo di 115,2 mila e in quello dei venticinque-trentaquattrenni di quarantaquattro mila e quattrocento.
I numeri più significativi riguardano proprio questa fascia d’età, il momento in cui si concludono gli studi, si avvia una carriera, si fanno progetti di vita e si pianifica una famiglia. Il confronto con gli anni successivi al post-Covid è impietoso, perché i quarantaquattro mila quattrocento occupati in meno del 2024 vengono dopo i centocinquantacinque mila seicento in più del 2023.
Si tratta di una riduzione dell’uno per cento, sembra poco, ma è indicativa di un’inversione di tendenza, a maggior ragione considerando che anche prima del Covid, nel 2019, seppur di poco, lo 0,58 per cento, il numero di lavoratori di questa fascia d’età era aumentato. E non si tratta dell’effetto della demografia o della diminuzione dei giovani, no: a calare è anche il tasso di occupazione. La proporzione di occupati tra i venticinque e i trentaquattro anni è passata dal 69,4 al 68,2 per cento tra dicembre 2023 e dicembre 2024, un calo dell’1,2 per cento che contrasta con gli incrementi superiori al due per cento degli anni precedenti, ma soprattutto con gli aumenti che, invece, continuano a interessare le fasce di età più anziane. Per i trentacinque-quarantanovenni il 2024 ha visto una crescita dello 0,9 per cento, fino al 77,6, per i cinquanta-sessantaquattrenni, poi, non c’è stato alcun rallentamento e, complice il crollo dei pensionamento anticipati, il loro tasso di occupazione è arrivato nel dicembre scorso al 65,4 per cento, con un ulteriore progresso dell’1,6 per cento rispetto a un anno prima.
Fra coloro che hanno tra i quindici e i sessantaquattro anni, ovvero coloro che fanno parte della forza lavoro secondo una definizione forse antiquata, il tasso di occupazione complessivo ha proseguito a salire nel corso del 2024, toccando un nuovo record, del 62,4 per cento in agosto e ottobre, anche se è evidente il rallentamento della seconda metà dell’anno, dovuto proprio ai dati dei più giovani.
Siamo tornati a un andazzo molto vecchio, il 2024 è stato il primo anno, dopo il 2013, in cui a un aumento del tasso di occupazione tra gli over cinquanta è corrisposto un calo tra i venticinque-trentacinquenni. È accaduto solo in anni di crisi o di crescita deludente, per esempio in tutti quelli tra 2008 e 2013 e nel 2005.
È un brutto segnale, il rallentamento dell’economia si ripercuote proprio sul segmento più prezioso della forza lavoro, il più scarso. Le imprese, di fronte alle prime difficoltà, preferiscono rinunciare ai ventenni e ai trentenni, fermando le assunzioni, se non liberandosene. E come reagiscono questi ventenni e trentenni? In modo in parte diverso. A fine 2024 si è registrato un preoccupante balzo del tasso di disoccupazione tra i venticinque e i trentacinque anni, salito al 9,7 per cento, con un aumento di circa un punto rispetto alla media dei mesi precedenti. Lo stesso incremento ha riguardato marginalmente i trentacinque-cinquantenni, mentre non ha toccato minimamente i più anziani.
Questo significa che coloro che hanno poco più o poco meno di trent’anni non rinunciano a fare parte della forza lavoro, del resto in epoca di single, di coppie senza figli, di affitti impossibili da sostenere senza un doppio stipendio, quella della casalinga è una carriera in declino. I trentenni non sono più abituati a rimanere inattivi, per fortuna. Nell’inattività tendono a finire maggiormente coloro che hanno meno di venticinque anni, nel dicembre 2024 la percentuale di quanti non lavorano né cercano un impiego tra essi ha toccato il record del 76,6 per cento, mentre scendeva per gli altri.
A influire su questa situazione c’è anche l’aumento degli iscritti all’università, cresciuti di circa centosettantatré mila dal 2019. È quindi il destino dei trentenni a destare maggiore preoccupazione. Il trend negativo è al momento nascosto dai progressi degli anni precedenti, dalla riduzione dei contratti a tempo determinato rispetto a dieci anni fa e dal continuo aumento dei cinquantenni al lavoro. Tuttavia, i segnali che arrivano non sono per nulla rassicuranti.
A proposito dei progressi, quelli che ci sono stati non sono bastati a riportare il tasso di occupazione dei trentenni ai valori di venti anni fa, quando veniva superato il settanta per cento, e rimane il più basso d’Europa, inferiore anche a quello dei coetanei greci. E se già venti anni fa non potevamo permetterci una riduzione dei lavoratori più giovani, men che meno possiamo oggi, che la crisi demografica si è aggravata.
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