Trump, Gaza e la ‘Riviera del Medio Oriente’ 

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Per settimane, dopo che l’approccio di Joe Biden e Antony Blinken aveva mostrato tutta la sua manchevolezza, i leader e l’opinione pubblica del mondo arabo si erano interrogati su come Donald Trump, una volta tornato alla Casa Bianca, avrebbe affrontato la peggior crisi nella regione da decenni. Le ipotesi oscillavano dall’imporre la pace a Benjamin Netanyahu e al suo governo al lasciargli ‘mano libera’ contro i palestinesi e contro Hamas. Nessuno, però, aveva previsto la proposta di evacuare la Striscia di Gaza, deportando i circa 2 milioni di palestinesi che la abitano, e ricostruire, al suo posto, un mega resort turistico di lusso, una Dubai in stile monegasco, affacciata sul Mediterraneo Orientale. Invece, nella conferenza stampa di ieri, poco dopo il loro incontro, il presidente americano e il premier israeliano (primo leader straniero ricevuto alla Casa Bianca) hanno presentato quello che senza timore di smentita, può definirsi la più incredibile proposta mai formulata in quasi 80 anni di conflitto. Il ‘piano’ prevede che gli Stati Uniti prendano possesso della Striscia “con una posizione di proprietà di lungo termine”, se necessario inviando truppe per il “takeover”; che i palestinesi si trasferiscano in massa e in modo permanente altrove, non è chiaro dove, in “un buono, fresco, bellissimo pezzo di terra”, un trasloco pagato “da paesi vicini, interessati e con un buon cuore umanitario”. “Faremo qualcosa che nessuno ha mai fatto. Penso che lo trasformeremo in un posto internazionale, bellissimo. Penso che il potenziale nella Striscia di Gaza sia incredibile”, ha detto Trump. Accanto a lui, Netanyahu ha sfoggiato per tutto il tempo un sorriso compiaciuto: “Bisogna prestare attenzione” ha detto, perché “le sue idee possono cambiare la storia”. 

Il trionfo di Netanyahu? 

In poco più di 40 minuti, il presidente Usa ha evocato davanti alla platea dei giornalisti (perlopiù increduli) una sconvolgente trasformazione geopolitica del Medio Oriente, che fornirebbe a Netanyahu un’eccellente ancora di salvezza politica. A Washington, il premier israeliano ha infatti incassato – oltre al piano shock su Gaza che vedrebbe in ultima istanza la Striscia trasformata in una “riviera del Medio Oriente” – la promessa di un miliardo di dollari in nuove armi, un prossimo ordine esecutivo “durissimo” contro l’Iran, l’uscita degli Stati Uniti dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani, che Trump ha definito un organismo “antisemita” e lo stop definitivo ai fondi americani all’agenzia delle Nazioni unite per i profughi palestinesi (Unrwa), che Tel Aviv accusa di collusione con Hamas. Per Netanyahu è una vittoria senza precedenti: potrà ora tornare in patria forte dell’appoggio del “migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”, le cui idee sono allineate a quelle di chi ambisce a vedere oltre 2 milioni di palestinesi cacciati da una parte di quella che considerano la terra sacra di Israele. L’ex ministro della sicurezza nazionale israeliano di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, che all’inizio di quest’anno si è dimesso dal gabinetto di guerra di Netanyahu per protestare contro l’accordo di cessate il fuoco a Gaza, ha confermato la sinergia tra il pensiero di Trump e quello dell’estrema destra messianica in Israele. “Donald – ​​ha scritto in un post su X – questo sembra l’inizio di una bellissima amicizia”. 

Una ricetta per il caos? 

Di tutt’altro senso, neanche a dirlo, sono le reazioni che il piano di Trump ha suscitato nel mondo arabo. Se il piano è stato rigettato da Hamas che l’ha definito “una ricetta per il caos” e dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) che ha ribadito che la Striscia “è parte integrante della terra palestinese”, anche dai paesi della regione si è levato un coro di critiche senza appello. Così l’Arabia Saudita ha segnalato che “continuerà i suoi incessanti sforzi per creare uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale e non stabilirà relazioni diplomatiche con Israele senza che questo accada”. Allo stesso modo Egitto, Giordania e Turchia hanno definito il piano inaccettabile: “La questione della deportazione è una situazione che né noi né la regione possono accettare. Persino pensarci è una perdita di tempo, è sbagliato addirittura aprire una discussione”, ha detto il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, chiarendo che nessun paese arabo o musulmano oserebbe accettarli, mostrandosi complici della deportazione forzata dei palestinesi da Gaza. Non è la prima volta che Trump ipotizza un futuro di sviluppo immobiliare di lusso per la Striscia di Gaza. Un anno fa, Jared Kushner, genero di Trump ed ex consigliere della Casa Bianca per il Medio Oriente, parlava della “proprietà costiera” di Gaza, come di una zona “molto preziosa”. Stavolta però il presidente – pur senza spiegare come vorrebbe realizzarla né come costringerebbe la popolazione di Gaza ad andarsene – ha fornito dettagli e contesto a quella che appare più di una semplice provocazione. 

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È il Trump 2.0 bellezza? 

Per quanto incredibili, i progetti di Trump rappresentano un cambio di paradigma del ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente. Vedere un presidente americano che avalla l’idea dell’esodo forzato di oltre 2 milioni di persone, traumatizzate da mesi di guerra e bombardamenti, non solo segna la fine di decenni di politiche volte al rispetto del diritto internazionale, ma assesta un duro colpo a una credibilità Usa già traballante agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Eppure, non v’è dubbio che la sua intuizione sia in linea con il Trump 2.0, un presidente che non sembra in alcun modo sentirsi vincolato dalle norme internazionali, dalla Costituzione o da chiunque intorno a lui. Da quando è tornato alla Casa Bianca, lo sta dimostrando nei fatti: affidando a Elon Musk le leve dell’esecutivo, mettendolo a capo del Dipartimento per l’efficienza governativa; congelando i finanziamenti per gli aiuti umanitari all’estero e chiudendo l’agenzia governativa UsAid: espellendo in massa gli immigrati irregolari; ordinando di bloccare i programmi federali per l’inclusione e la diversità, compresa quella delle persone disabili. In campagna elettorale non aveva fatto mistero dei suoi propositi radicali. Come quando, per Gaza, aveva parlato di un “piano per la pace” che avrebbe cambiato l’equazione in atto. Ora quel che dovrebbe chiarire è sulla base di quale diritto internazionale Washington intenda occupare, svuotare e ripopolare un territorio che, pur senza un governo legittimo, non è disponibile agli Stati Uniti semplicemente in virtù del loro desiderio di prenderne il controllo. 

Il commento 

Di Mario del Pero, ISPI e Sciences Po 

“È difficile commentare, e quindi prendere sul serio, tante boutades di Trump, a partire da questa ultima sull’espulsione di più di 2 milioni di palestinesi da Gaza e la contestuale trasformazione della Striscia in un grande resort turistico amministrato dagli Usa. Ma siamo obbligati a farlo. Perché del leader della principale potenza mondiale si tratta. E perché le sue parole, anche le più grottesche, possono essere rivelatrici e comunque definiscono, molto banalmente, il perimetro del dicibile e dell’immaginabile. Segnalano, nel caso specifico, il degrado apparentemente inarrestabile del discorso pubblico e politico negli Usa. E al contempo ci mostrano quanto profonda e finanche organica sia oggi la relazione tra due destre sempre più estreme, quali quelle statunitense e israeliana. Dove la prima – a partire dai suoi prossimi ambasciatori all’Onu (Elise Stefanik) e in Israele (Mike Huckabee) – sembra oggi dare pieno semaforo verde alla politica d’insediamenti in Cisgiordania, abbandonando qualsivoglia pretesa di equidistanza”. 



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