Il mondo sembra dimenticare le energie rinnovabili

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Come dice il proverbio? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Vale anche nell’ipertecnologico mondo globale e per accorgersene basta scorrere le immagini del gigantesco incendio che ha devastato ai primi di gennaio una megalopoli come Los Angeles (16 morti accertati, 150 miliardi di dollari di danni, le grandi ville di Pacific Palisade, forse il più bello lungomare americano, il regno dei vip di Hollywood) e poi l’isola di Mayotte, uno degli ultimi “territori d’Oltremare” francesi nell’Oceano indiano, devastata dal ciclone Chido e, infine, le inondazioni che hanno sommerso Valencia, in Spagna, solo per citare gli eventi estremi più recenti.

Il “saldo meteorologico” è che il 2024 è stato l’anno più caldo a partire dal 1850 e che, sempre nel 2024, è stata superata quella soglia di 1,5 gradi indicata dalla Cop 21 di Parigi del 2015 (conclusasi con grandi abbracci e grandi impegni ecologici di tutti i Grandi della terra) come la soglia critica da non superare assolutamente per poter continuare a tenere sotto controllo il cambiamento climatico del pianeta.

Non è andata così perché, come dicevamo, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire; perché tutti i paesi investono sempre meno nelle energie rinnovabili (un recentissimo studio della Bce mette sotto accusa proprio gli stati europei); perché le grandi multinazionali dell’energia continuano a investire – oltre mille miliardi di dollari previsti nel 2025 come si dirà più avanti – nel petrolio e nel gas; perché anche i grandi gestori della finanza globale, a cominciare da Blackrock (11,5 trilioni di dollari di asset), stanno abbandonando gli investimenti verdi, le politiche ambientaliste.

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Il risultato, come scrive il Centro meteorologico europeo, è che già in questo inizio anno (quando le conseguenze dei mille miliardi di dollari investiti in nuovi campi petroliferi e in nuovi gassificatori non si sono ancora concretizzate) la concentrazione di diossido di carbonio (Co2) nell’atmosfera è la più alta da almeno due milioni di annni e quella di gas metano da 800mila anni. Perché stupirsi, allora, se la temperatura sale di 1,5 gradi nel 2024 come ha certificato l’agenzia europea Copernicus e salirà di 1,6 gradi nel 2025?

Certo, il gas naturale e il petrolio sono meno inquinanti del carbone e l’economia globale ha ancora bisogno – almeno fino al 2035 e forse di più  – delle energie fossili, ma quel che spaventa è la disattenzione con cui si (non) guarda agli indicatori della salute del pianeta, per esempio alla temperatura dell’acqua degli oceani che nel 2024, un vero “annus horribilis” dal punto di vista meteorologico, ha toccato il record di 20,9 gradi, mezzo grado in più rispetto alla media 1991-2000. Sembra poca cosa ma è in realtà una bomba a orologeria per il clima se si pensa che gli oceani conservano il 90% dell’energia accumulata dal “sistema Terra” CO2 compresa, visto che il livello delle emissioni di gas a effetto serra (GES) ha continuato ad aumentare nel 2024 (e ancor di più nel 2025) nonostante gli impegni presi solennemente nella Cop 21 di Parigi del 2015 e confermati da tutte le conferenze mondiali successive.

Il Rhodium Group, un think tank americano vicino al partito democratico, ha fatto i conti e ha scoperto che, solo nel 2024 e solo negli Usa, la riduzione delle emissioni inquinanti stata di appena lo 0,2% contro il 3,3% del 2023 (e questo vuol dire che, per rispettare gli impegni della Cop parigina, da cui il neopresidente Trump uscirà così come aveva fatto nel 2006, gli Usa dovranno ridurre le emissioni del 7,6% l’anno, un livello impossibile). In Germania le cose non vanno meglio. Qui un altro think tank, Agora Energiewende, vicino al vicecancelliere Robert Habeck (partito dei Verdi), ha calcolato che nel 2023 le emissioni erano scese di 673milioni di tonnellate equivalenti CO2 (pari a -10%, il livello più basso dal 1950!), mentre nel 2024 la diminuzione è stata di un modestissimo 3%. In Francia ancora peggio: le emissioni sono salite dello 0,5% (fonte: Citepa, un centro studi sull’ambiente che vanta 60 anni di esperienza). E ancora: maglia nera la Spagna con una crescita delle emissioni dello 0,9% come certifica l’Osservatorio sulla transizione energetica (Otea). Complessivamente in Europa le emissioni di Ges sono scese del 3,8% nel 2024 mentre nel 2023 la riduzione era stata dell’8%.

Ma, oltre ai cattivi comportamenti sociali (chiamiamoli così) che sono alla base della sempre minori riduzioni delle emissioni, quel che preoccupa in questo inizio d’anno è la previsione della società di consulenza industriale Deloitte che, dopo un’accurata inchiesta sul campo, conclude che il 2025 sarà l’anno in cui le major dell’energia investiranno di più nel petrolio e nel gas: 1.150 miliardi di dollari, superando così il record di mille miliardi certificato dall’Aie, l’Agenzia internazionale dell’energia.

Scrivono gli economisti di Deloitte: “I colossi dell’energia vogliono adottare una strategia di allocazione del capitale nei progetti ad alto rendimento e ad alto tasso di innovazione tecnologica”. Tradotto: investimenti in nuovi campi petroliferi e nell’intelligenza artificiale per aiutare la ricerca di nuovi giacimenti (magari negli oceani). “Le compagnie petrolifere – scrivono ancor più chiaramente gli analisti di Deloitte – hanno preso atto che la transizione energetica avrà tempi più lunghi e quindi la domanda di petrolio e gas sarà più alta nei prossimi anni. Per questo ridurranno il loro impegno nelle energie rinnovabili e investiranno nei settori tradizionali a più alta redditività”.

In Europa, BP e Shell sono le prime compagnie a fare marcia indietro (“in maniera significativa” scrive Deloitte) sulle energie rinnovabili. BP non investirà più nell’eolico off-shore, uscirà dalla joint-venture con il gigante giapponese dell’energia Jera, e venderà la sua partecipazione nell’eolico terrestre negli Usa. La Shell non svilupperà più nuovi progetti nell’eolico marino.

Ormai tutta l’attenzione è sulle energie fossili la cui domanda la francese Total Energies (ma anche l’AIE) vede in crescita almeno fino al 2035. Per questo l’offerta dovrà aumentare in maniera significativa: per il gas naturale almeno del 50% (avete letto bene: del 50%!) da qui al 2028. Per questo l’americana Venture Global ha ultimato a tempo di record il suo terminale in Louisiana e ha già inviato il primo cargo di GNL in Germania (a fine 2025 sarà a regime con una capacità di 20milioni di tonnellate).

Con l’arrivo di Trump gli Usa raddoppieranno (insieme col Canada) l’offerta di gas mentre la Exxon metterà in funzione il primo dei trenta giacimenti scoperti al largo della Guyana, in Sudamerica, in grado di fornire già quest’anno 250mila barili al giorno (per arrivare a 1,7 milioni di barili a regime). Alla Exxon si affiancherà presto la Chevron che ha già rilevato il 30% di un campo petrolifero (Hess) sempre nella Guyana britannica. Non mancherà certamente l’Aramco, il colosso petrolifero controllato dalla monarchia saudita, che ha investito 100miliardi di dollari per sfruttare il più grande giacimento di GNL del Medio Oriente a Jafurah, sul Golfo Persico, e diventare così il terzo produttore mondiale di gas. E non mancheranno, si capisce, neanche i francesi di Total che cominceranno a pompare petrolio (per ora 160mila barili al giorno) al largo della Namibia in un campo che ha una potenzialità di tre miliardi di barili e che ora interessa anche agli olandesi di Shell e ai portoghesi di Galp.

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Ma il segnale che “fait tache” come ha scritto il quotidiano economico francese Les Echos, che dà il senso di quel che sta accadendo, è l’uscita di Blackrock, il gigante del risparmio gestito (11,5 miliardi di asset, come ricordato prima), dal consorzio NZAM, Net Zero Asset Management, l’allenza mondiale di 325 società di gestione che nel 2020 avevano sottoscritto un protocollo per dirottare una parte dei loro asset (in totale, 57,5 trilioni di dollari) nel settore delle rinnovabili. Ora il primo partner, Blackrock, ma anche il secondo, Vanguard, hanno deciso di uscire dall’alleanza. “Non è più conveniente” ha scritto il gran capo di Blackrock, Larry Fink, nella lettera agli azionisti di fine anno. E ha ritirato mille miliardi di dollari di “investimenti verdi”.

Più che il verde, la finanza globale come i giganti globali dell’energia, teme il rosso dei bilanci. Meglio non rischiare. Ma se il pianeta s’infiamma e il clima impazzisce? Ci si penserà dopo, a disastro avvenuto. Perché non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.



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