Errore sottovalutare l’interesse nazionale – La Stampa

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Non è facile definire che cosa sia l’interesse nazionale. Eppure, se ci rifiutiamo di tener conto di questa nozione sfuggente, rischiamo di patirne conseguenze gravi e concrete. Nel caso Almasri, di cui discutiamo ormai da giorni, stiamo parlando dell’incolumità dei nostri concittadini impegnati su un terreno complesso e instabile come quello libico, della strumentalizzazione politica dei flussi migratori, dell’approvvigionamento energetico. Ignorare o sottovalutare quel che sarebbe potuto accadere in questi ambiti se il generale libico fosse stato trattenuto sarebbe da irresponsabili in termini non soltanto politici, ma anche morali: sarebbe giocare con la vita delle persone, metterne a repentaglio la sicurezza e il benessere.

Il conflitto fra l’esigenza che un individuo accusato di delitti efferati sia sottoposto a giudizio e l’interesse nazionale che ne richiede il rimpatrio, allora, non vede la moralità contrapporsi alla Realpolitik, la giustizia al potere, l’idealismo al cinismo. Vede una moralità semplice e immediata contrapporsi a un’altra moralità, più complessa e di lungo periodo. L’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità, per usare le celebri espressioni di Max Weber. È una scelta tragica, perché ha a che fare con due beni. Ed è una scelta di fronte alla quale il nostro mondo va in cortocircuito perché – come ci ha spiegato da ultimo Robert Kaplan – abbiamo da tempo smarrito il senso del tragico, ci siamo illusi che tutti i beni potessero esser perseguiti in simultanea, che fossero tutti magicamente compatibili fra di loro. È sufficiente vedere in quali difficoltà si dibatte l’Unione europa, entità de-tragicizzata se mai ce n’è stata una, ora che è costretta a decidere se dare priorità alla transizione energetica o alla difesa.

Nel caso Almasri, il governo ha fatto una scelta. Per quel che vale, ritengo che sia stata senz’altro quella giusta, particolarmente ampio essendo in questo caso il divario fra il bene immediato che avremmo avuto trattenendolo e quello differito che avremo, avendolo rimpatriato. Questa mia convinzione soggettiva è rafforzata da un dato oggettivo: prima di arrivare al governo Meloni, l’accordo con la Libia è stato firmato nel 2017 dal gabinetto Gentiloni e rinnovato tre anni dopo dal Conte II. Tutte le più importanti forze politiche, insomma, da una parte all’altra dell’emiciclo, hanno ritenuto che mantenere buoni rapporti col paese nordafricano rappresentasse un interesse nazionale prioritario. Se definire che cosa sia quell’interesse non è facile, una convergenza così vasta e trasversale ci rende senz’altro il compito più facile.

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Ma il governo non si è limitato a fare una scelta. Ha anche cercato di nasconderne il carattere politico, ossia di disinnescare il conflitto di valori che conteneva, riconducendola a una questione di natura tecnica. E l’opposizione, oltre che sulla sostanza dell’operazione, è andata all’attacco dell’esecutivo anche su questo terreno tecnico, ossia sul modo in cui il rimpatrio di Almasri è stato compiuto e legittimato. Ha voluto esplicitare e politicizzare il conflitto fra giustizia e interesse nazionale, insomma. Le è convenuto? E al governo e al Paese, è convenuto? Temo che, nel medio periodo, non sarà convenuto a nessuno.

Non è di certo convenuto al governo, che ha tentato di compiere un’operazione necessaria ma sgradevole cercando di assumerne la minor responsabilità politica possibile, e alla fine è stato costretto a prendersela. All’inverso, è convenuto nell’immediato all’opposizione, che ne ha approfittato per ricompattarsi contro l’esecutivo e per guadagnare visibilità. Quest’opportunismo ha avuto dei costi, però. Il primo e in fondo il più lieve è stata la gara di calembour da avanspettacolo cui si sono abbandonati i leader della minoranza in evidente competizione televisiva l’uno con l’altro – gara tanto meno commendevole poiché, come detto, si stava parlando, a suo modo, di una tragedia. Il secondo e ben più salato è rappresentato dalla lacerazione che si è aperta, di fronte al mondo, sulla definizione di interesse nazionale. Dissentire su quella definizione è legittimo, ci mancherebbe, è il sale della politica. Ma aprire conflitti ultimativi su questo terreno per mero interesse partigiano è un’operazione pericolosa, che andrebbe compiuta quanto meno facendosi carico delle scelte passate del Paese, tanto più quando se ne porta la responsabilità politica, e soprattutto evitando di precostituirgli guai futuri.

Il terzo costo ha a che fare coi diritti e la giustizia. Muovendosi sul terreno tecnico il governo, in fin dei conti, ha cercato di evitare una collisione frontale, politica con la Corte penale dell’Aja. Era ipocrisia? Può darsi. Ma era anche un modo per confermare il valore del diritto internazionale, pur nel momento stesso in cui lo si doveva violare. L’opposizione politica e le insonni vestali della Giustizia hanno voluto lacerare il velo e far vedere al mondo la violazione. Padronissime, ma così hanno mostrato pure, una volta di più, che la rete del diritto e dei diritti internazionali è piena di smagliature, che non riesce più a contenere una realtà troppo eterogenea e refrattaria ai suoi princìpi, che il governo del mondo richiede l’uso di strumenti assai diversi. Hanno mostrato che quella rete è una bella impossibile, insomma – e da impossibile a inutile, il passo è drammaticamente breve. Chi per difendere il diritto ne enfatizza il conflitto con la politica sta giocando un gioco rischioso, oggi, nell’epoca del secondo Donald Trump e della rivincita della politica.



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