Teatro San Carlo “Romeo e Giulietta”, intervista a Giorgia Guerra

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Era l’ottobre di due anni fa quando, per inaugurare la 72esima stagione Abao (Asociación Bilbaina Amigos de la Ópera) a Bilbao andava in scena «Roméo et Juliette» di Gounod in una nuova produzione interpretata da Javier Camarena e Nadine Sierra con la regia tutta italiana di Giorgia Guerra. Lo stesso spettacolo, con gli stessi cantanti nei ruoli del titolo, è ora in programma al San Carlo dal 15 febbraio (ore 20) con quattro repliche fino al 25. Le scene sono di Federica Parolini, i costumi di Lorena Marino, le luci di Fiammetta Baldiserri, le proiezioni video di Studio Immaginario. Nel cast c’è anche Gianluca Buratto come Frère Laurent, sul podio Sesto Quatrini. Ed è la prima volta che l’opera in cinque atti, scritta nel 1865 su libretto in francese di Jules Barbier e Michel Carré tratto dal capolavoro di William Shakespeare, viene rappresentata a Napoli. Eppure sono tanti i momenti noti di questa partitura, a partire dall’aria che apre il secondo atto «Leve-toi soleil», cavallo di battaglia di tanti tenori.

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Giorgia Guerra, è così?
«Sì e sembra strano che un’opera che ha avuto tanta fortuna non sia mai stata rappresentata su un palco prestigioso come il San Carlo, per me è una occasione unica perché anch’io, dopo aver girato tanto, debutto a Napoli».

E come sono i suoi Romeo e Giulietta?
«Ho voluto caratterizzare Montecchi e Capuleti con due colori: blu e rosso. In realtà non è una scelta filologica perché i colori delle due famiglie erano il giallo e il blu. Ma cercavo elementi forti. Che poi si annullano nel bianco utilizzato nelle scene d’amore, come se l’amore annullasse tutte le differenze».

E la sua regia?
«Rispetto estremamente la musica e il testo tanto legato alla fonte letteraria. Non ho voluto togliere o aggiungere altro ad una storia di per sé ricca di tanti significati. Vorrei che entrando in teatro, ci si disconnettesse dall’esterno. Ogni spettatore può vedere quello che vuole in questi conflitti che Shakespeare mette in piazza: conflitti familiari, geopolitici. Ci si può vedere anche qualcosa dei conflitti bellici dell’oggi, come Gaza o l’Ucraina. Ma l’auspicio è che l’amore annulli ogni differenza. Chissà quante volte di fronte a un conflitto, anche minimo, della nostra vita quotidiana, non abbiamo pensato che sia giusto fermarsi, riflettere, disconnettersi».

Lei ha ambientato il dramma in una sorta di grande scatola scenica su cui vengono mostrate alcune proiezioni.
«Ma non sono proiezioni che forniscono didascalie, danno solo piccoli riferimenti sempre al millimetro con la musica…. in fondo la scena è una scatola atemporale con un grande monolite al centro, ma i costumi rimandano all’epoca dei fatti. Perché siamo di fronte a sentimenti immortali, a prescindere da ogni epoca. Così cerco di sottolineare l’andamento emotivo dei vari personaggi anche lavorando molto con i cantanti-attori».

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Qui ritrova Camarena e la Sierra, come va?
«In realtà la ripresa è diventata come una nuova messa in scena. Ci sono i due protagonisti che hanno già lavorato a questa produzione, ma tutti gli altri cantanti sono nuovi, ed è nuovo il contesto, il coro, l’orchestra. Chiaramente l’idea di base è sempre la stessa, ma siamo italiani: culturalmente lo spettacolo sarà diverso».

Lei sottolinea sempre la sua italianità, c’è un motivo?
«Veda, io provengo da una famiglia che lavorava nel mondo dell’opera, mio padre Raffaele Guerra, mia madre Luciana Delle Monache. Sono cresciuta a Roma tra latte e musica. Ho iniziato da zero. Ho fatto il pastorello in “Tosca”, la figurante in “Madame Butterfly”. Ho lavorato come assistente al trucco, ho guidato il pulmino che portava i cantanti. Poi ho fatto l’attrice di prosa e pian piano sono cresciuta nell’impresa di famiglia facendo l’assistente alla regia di Dario Micheli. Poi mi sono laureata, ho seguito l’accademia dell’opera a Verona…».

Insomma, la vera gavetta.
«Qualcosa che non si fa più, compresa una vita da nomade. E anche in un mondo, quello dei teatri di provincia cosiddetti “minori”, i teatri di tradizione, che sta scomparendo. Invece era una vera fucina per imparare l’arte della scena e per conoscere i mestieri del teatro. In fondo, quando faccio una regia non faccio altro che mettere in pratica quello che ho imparato nel tempo. Proprio l’altro giorno, al San Carlo, ho incontrato persone che si ricordano della mia famiglia e di me piccina e mi sono molto emozionata. Per me è molto importante, ed è anche una grande responsabilità perché vorrei fare che questo patrimonio di tradizioni genuine non vada perduto. L’opera è un mondo vivo, va fatto vivere».





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