Costi e caos. L’effetto diretto dei dazi di Trump

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Donald Trump ha ufficialmente dichiarato guerra commerciale all’Ue, e non solo. Il presidente degli Stati Uniti ha mantenuto la promessa di imporre dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio. “Oggi semplifico le nostre tariffe sull’acciaio e l’alluminio”, ha detto Trump nello studio ovale mentre firmava gli ordini esecutivi. “E’ il 25%, senza eccezioni o esenzioni”. La rimozione delle esenzioni nei fatti allarga a tutti i Paesi, europei inclusi, le tariffe che in parte erano già in vigore. Non solo: il tycoon ha anche annunciato di valutare tariffe su altri beni, come automobili, prodotti farmaceutici e chip informatici. “Ho stabilito che le importazioni di articoli in acciaio rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale”, ha scritto Trump nel suo testo, spiegando che avrebbe posto fine alle norme attualmente in vigore “a partire dal 12 marzo”. Il repubblicano ha emesso un’ordinanza separata analoga riguardante le importazioni di alluminio.

L’annuncio ha generato trambusto e fibrillazione nei palazzi della Commissione Europea, peraltro nel giorno dell’incontro tra la presidente Ursula von der Leyen e il vicepresidente americano David Vance a Parigi, a margine del summit sull’Ia. Incontro da cui è venuto fuori ben poco, un generico impegno per le sfide comuni. Bruxelles è in apprensione, e non sottovaluta la portata della decisione americana. Tanto che per mercoledì pomeriggio è stato convocato d’urgenza dalla presidenza polacca un Consiglio dei ministri dell’Ue con la delega al Commercio.

I dazi non colpiscono infatti tutti i Paesi e tutti i settori allo stesso modo. Per quanto riguarda l’acciaio, ad esempio, gli Stati Uniti ne importano davvero poco, e ancor meno dall’Ue. Attualmente, infatti, le importazioni nette di acciaio soddisfano circa il 15% della domanda annuale americana. Quasi tutte le importazioni provengono attualmente da Paesi con esenzioni alle tariffe con la maggior parte dei volumi provenienti da Canada, Brasile, Ue e Messico. Canada e Messico sono anche mercati di esportazione chiave per l’acciaio prodotto negli Stati Uniti, portando il commercio netto tra loro e gli Stati Uniti quasi alla neutralità.

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Ma l’Ue è comunque in allarme perché l’impatto dei dazi è ramificato. A livello macro, le tariffe comporteranno costi più elevati per le aziende statunitensi che si affidano all’acciaio e all’alluminio (come i produttori di automobili e le aziende edili). Questo rischia di tradursi in prezzi più elevati per i consumatori. Inoltre la mossa di Trump provocherà una rappresaglia, che Bruxelles assicura sarà decisa ma proporzionata, andando così a contribuire all’aumento dell’inflazione globale. Le tariffe contribuiranno inoltre ad alimentare la volatilità dei mercati, azionari e delle materie prime, oltre ad avere ricadute occupazionali se provocheranno – d’altronde questo è l’intento del tycoon – un calo delle esportazioni. 

Durante il suo primo mandato (2017-21), Trump aveva già imposto tariffe del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Molte di queste misure sono state successivamente revocate da lui stesso o dal suo successore democratico, Joe Biden. I prezzi dell’acciaio sono aumentati del 20% nel 2018, quelli dell’alluminio sono aumentati di circa il 10%. Ma hanno poi iniziato a scendere nel 2019 a causa dell’indebolimento della domanda. Gli effetti maggiori toccheranno piuttosto i settori connessi ai due metalli, anche dal punto di vista occupazionale. Le acciaierie impiegano meno di novantamila lavoratori, i produttori di alluminio ne impiegano meno di sessantamila. Al contrario, i produttori di metalli lavorati impiegano 1,43 milioni di persone, quelli di macchinari impiegano 1,1 milioni di persone, quelli di veicoli a motore e componenti impiegano un altro milione.

Insomma a patire i danni delle tariffe non saranno solo i comparti direttamente interessati, le industrie dell’acciaio e dell’alluminio, ma tutta la manifattura a loro collegata e che impiegano molta più manodopera. Tanto più negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’acciaio, infatti, a essere maggiormente esposti sono i settori legati alle lamiere e ai materiali per le costruzioni, componenti e parti di autoveicoli, attrezzature per le movimentazioni dei materiali,  macchine agricole, fonderie di metalli, produzione di dadi e bulloni, macchine edili, attrezzature militari. Per l’alluminio, saranno colpite le lattine di metallo, e quindi per estensione il comparto delle bevande analcoliche, i rimorchi per camion, parti di motociclette e biciclette, utensili e stampi, costruzioni navali e carrozzerie di veicoli a motore. Tutto ciò che ruota intorno all’alluminio, a ben vedere, è maggiormente interessato dal momento che gli Usa importano solo un 15% dell’acciaio che consumano, mentre importano poco meno della metà dei consumi di alluminio.

I dazi stanno provocando “un caos” per l’industria dell’auto statunitense, ha detto l’amministratore delegato della casa americana Ford Motor Jim Farley, secondo Cnbc, e aggiungono “molti costi e molto caos”. “Il presidente Trump ha parlato molto di rendere la nostra industria dell’auto più forte. Ma finora vediamo molti costi e molto caos”, ha detto l’esponente del settore automotive americana.

Il problema però non è comunque da sottovalutare per la metallurgia: i dazi irrompono in un contesto segnato dalle crescenti difficoltà del settore, a sua volta irrigidito dal calo della produzione di veicoli in Europa. Con l’attuale attuazione della Sezione 232, i produttori di acciaio europei avevano delle esenzioni e la Commissione europea aveva negoziato una quota tariffaria (Trq). Nonostante le esenzioni e la Trq, le importazioni di acciaio dell’Ue negli Stati Uniti sono diminuite di oltre 1 milione di tonnellate all’anno. Se tutte le esenzioni e le Trq sui prodotti venissero ora rimosse, l’Ue potrebbe perdere fino a 3,7 milioni di tonnellate di esportazioni di acciaio verso gli Stati Uniti”, ha affermato Henrik Adam, presidente dell’associazione europea dei produttori dell’acciaio, Eurofer. Già durante il primo mandato di Trump, nonostante le esenzioni, il valore aggiunto della produzione di metalli dell’Ue è diminuito drasticamente di un terzo in Germania, del 38% in Italia, del 53% in Francia e fino al 62% in Spagna.

“Gli Stati Uniti sono il secondo mercato di esportazione più grande per i produttori di acciaio dell’Ue, rappresentando il 16% delle esportazioni totali di acciaio dell’Ue nel 2024. La perdita di una parte significativa di queste esportazioni non può essere compensata dalle esportazioni dell’Ue verso altri mercati”, ha aggiunto. Già oggi la sovracapacità globale di acciaio, soprattutto dai Paesi in via di sviluppo, “viene scaricata sul vulnerabile mercato siderurgico dell’Ue a prezzi molto bassi, principalmente dall’Asia, dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Ciò sta portando all’incapacità di investire nella transizione verde e, in ultima analisi, alla deindustrializzazione dell’Europa. Solo nel 2024, l’industria siderurgica dell’Ue ha dovuto chiudere nove milioni di tonnellate di capacità con oltre 18 mila tagli di posti di lavoro annunciati. L’ordine esecutivo del presidente Trump aggraverà inevitabilmente ulteriormente la situazione”, ha precisato il presidente di Eurofer. 

Di base l’Ue non è tra i maggiori interessati: come ricorda il Guardian la stragrande maggioranza degli scambi di beni sia per il Canada che per il Messico è destinata agli Stati Uniti: l’80% dei beni esportati dal Messico e il 78% di quelli canadesi sono destinati agli Stati Uniti. La quota relativa all’Ue è molto più bassa, con solo un quinto delle sue esportazioni destinate agli Usa. E tra queste svettano quelle tedesche, con oltre 160 miliardi di dollari di export. Ma anche queste esportazioni pesano per circa il 10% sul totale. Gli effetti da temere non sono quindi quelli diretti, ma quelli indiretti e causati dall’interconnessione dei traffici e degli scambi, oltre che dei prezzi sui mercati globali che andranno a influenzarsi a vicenda. Anche l’Ue avrà il suo bel conto da saldare, e sarà salato. Dalla furia protezionistica di Trump non si salva nessuno: nemmeno l’Ucraina…



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