La parabola di PiùEuropa è un fallimento storico della scuola radicale e pannelliana

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Come puntualmente accade dal 2019, ogni volta che il partito di PiùEuropa si riunisce a Congresso viene fuori uno scandalo sul tesseramento pre-congressuale. Si partì con quello dei famosi “pullman di Tabacci” – persone trasportate per il giorno del voto, dopo essere state iscritte via bonifico direttamente dal conto di Centro Democratico – e delle centinaia di iscrizioni annullate dalla tesoreria (caso rimasto unico) perché evidentemente truffaldine, e si è arrivati adesso a quello di un migliaio di campani iscritti nei giorni immediatamente precedenti il termine delle iscrizioni, per dare a tale Rosario Mariniello (chi era costui?) la golden share nella Direzione e nell’Assemblea del partito.

Tempestiva è sempre seguita la reazione indignata dei vertici pro tempore di PiùEuropa, pronti a difendere la natura non solo regolare, ma assolutamente genuina e personale di queste iscrizioni last-minute, pure a fronte di evidenze imbarazzanti e grottesche, come nel caso di decine di iscrizioni regolate in contanti lo stesso giorno, dallo stesso ufficio postale o dalla stessa tabaccheria, o effettuate digitalmente alla stessa ora, con stessi numeri di carta di credito e dallo stesso indirizzo Ip.

Conosciamo bene la situazione, perché abbiamo anche avuto responsabilità politiche e statutarie dentro PiùEuropa, in cui abbiamo posto, senza fortuna e senza esito, fino a stancarcene, la questione non morale ma tutta politica del pervertimento micro-partitocratico di un soggetto che rivendicava un’ascendenza politica radicale. Occorre anche tristemente ammettere che nella classe dirigente rimasta in PiùEuropa, sia tra i sommersi che tra i salvati dell’ultima alluvione di tessere pre-congressuali, questa prassi consolidata è stata di fatto legittimata, proprio perché pervicacemente negata.

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Eppure in occasione di ogni congresso sarebbe bastato guardare l’andamento delle iscrizioni al partito per riconoscere macroscopiche anomalie, rese ancora più evidenti dalla circostanza di avvenire in un soggetto che, pure nelle bolle pre-congressuali, non ha mai superato le poche migliaia di iscritti.

Il trend di quest’ultimo Congresso è esemplificativo. Dai dati pubblicati sulla pagina web di PiùEuropa si legge che all’8 dicembre gli iscritti totali erano duemilacinquecentosessantuno, di cui ottocentoquarantatré in Campania; il 26 dicembre il totale arrivava a tremilacinquecentotto3 con i campani balzati a milleduecentonovantotto; e l’ultimo conteggio disponibile riporta un totale di seimilacentocinquantanove iscritti con duemilasessantotto campani. 

Per comprendere meglio la singolarità del dato basti pensare che la regione immediatamente dietro la Campania è la Lombardia con cinquecentosessantanove iscritti. Si tratterebbe, quindi, di un partito che raccoglie il maggior consenso elettorale e riceve le quote più significative di due per mille da Regioni del tutto sottorappresentate in termini di iscritti.

Visto che la moneta cattiva scaccia la buona, anche l’altro soggetto di ispirazione radicale – Radicali italiani – è andato incontro allo stesso destino, fino a emarginare ed espellere politicamente tutta la classe dirigente che l’aveva condotto negli ultimi vent’anni (“dobbiamo spazzarli via” riferiva uno degli arrembanti), per sostituirla con homines novi che sono stati anch’essi protagonisti delle ultime vicissitudini congressuali di PiùEuropa(oggi il presidente di PiùEuropa e quello di Radicali italiani sono infatti la stessa persona, il giovanissimo – nota né di merito né di demerito, ma banale dato anagrafico – e abilissimo Matteo Hallissey). 

E per Radicali italiani, la segnalazione di iscrizioni anomale, determinanti ai fini congressuali, arrivavano da luoghi e gruppi di persone che, guarda il caso, hanno determinato anche gli esiti congressuali di PiùEuropa. Se si pensa che si tratta, in entrambi i casi, di soggetti che usufruiscono della ripartizione del due per mille delle imposte dei contribuenti, si comprende che non si tratta di meri affari interni ai partiti.

Sarebbe però sbagliato leggere queste vicende solo come episodi di un malcostume diffuso – così fan tutti, quindi non è colpa di nessuno – e non come un vero e proprio fallimento della scuola radicale e pannelliana. Non un tradimento da parte di alcuni, proprio un fallimento che ha coinvolto tutti quelli che dopo la morte di Marco Pannella hanno provato a costruire soggetti politico-elettorali che ne raccogliessero l’eredità politica.

Dopo l’uscita dal modello politicamente carismatico ed elettoralmente personale – la lista Marco Pannella – quando hanno provato a costruire soggetti politico-elettorali classicamente democratici e contendibili, i radicali sono presto o tardi finiti a fare il verso alla peggiore partitocrazia. È una coincidenza significativa, non solo perché il magistero pannelliano non ha insegnato agli epigoni a diffidare – come Pannella faceva – di una forma partito destinata a diventare democraticamente entropica (come dimostrò il collasso della Prima Repubblica), ma soprattutto perché non ha suggerito loro un modello alternativo al partito carismatico, ma diverso da quello del partito delle tessere. 

Per una storia politica che ha esercitato un ruolo, a tratti riconosciuto, di alta pedagogia civile, si tratta oggettivamente di un fallimento storico, molto più grande delle piccole dimensioni e del piccolo cabotaggio a cui sono ridotti i partiti radicali post-pannelliani. In questo panorama fa eccezione solo il Partito Radicale propriamente detto, che però non è per statuto un partito elettorale, non ha seggi e non ha il “due per mille” e si è ritagliato un ruolo di puro custode della storia e memoria pannelliana.

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Ovviamente tutto questo si inscrive nella generale crisi dei partiti novecenteschi, sia quelli di massa che quelli elitari, a cui l’intero sistema politico italiano dà risposte confuse e contraddittorie: dal ritorno indietro verso i partiti azienda e personali, alle spericolate fughe in avanti verso il partito degli elettori, come fa il Partito Democratico con le primarie aperte.

Non è che manchino nella letteratura suggestioni teoriche verso modelli di organizzazione politica cooperativi e competitivi, ma non padronali e non parassitari, con architetture istituzionali interne centrate su incentivi virtuosi e su meccanismi di affiliazione diversi da quello del vecchio e criminogeno tesseramento pre-congressuale. Quella che è evidentemente mancata nella classe dirigente radicale post-pannelliana è stata la disponibilità a coltivare questo interesse, a fronte di una ampia e patetica disponibilità a ripercorrere in sedicesimo i fasti dell’aborrita partitocrazia. Inverando la massima pannelliana per cui non è vero che il fine giustifica i mezzi, ma sono i mezzi a prefigurare i fini.



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