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Il Vangelo di questa domenica ci presenta la versione lucana del famoso brano delle Beatitudini.

VI domenica del tempo ordinario

Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26 

         Il Vangelo di questa domenica ci presenta la versione lucana del famoso brano delle Beatitudini (l’altra versione si trova in Mt 5,3-11), in cui Gesù proclama «beati», ovvero felici, tutti coloro che, trovandosi in situazioni di povertà, bisogno, sofferenza, persecuzione, verrebbero nel nostro mondo, e non solo in quello presente, visti come «infelici» e miserevoli, ovvero persone degne di commiserazione o, ancora peggio, da tenere a distanza, magari girando il proprio sguardo altrove.

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         Attorno a Gesù ci sono persone provenienti non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma anche da Tiro e Sidone, cioè da territori pagani. Di per sé questo non vuol dire che costoro non fossero ebrei, ma rimane aperta la possibilità che non fossero di religione giudaica. Ulteriore elemento è il fatto che Gesù non si rivolge alle folle ma, di fronte a queste, indirizza il suo discorso ai suoi discepoli: «Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva». Il discepolato è quindi una condizione necessaria per comprendere il discorso che seguirà.

         In effetti proclamare felici, beati, persone che vivono in condizioni di povertà, di bisogno, di sofferenza, di per sé non avrebbe senso. La povertà, la mancanza di cibo e di acqua, la sofferenza non sono e non possono mai essere dei valori da perseguire né tantomeno di cui poter essere felici. Allora qual è il senso di questa beatitudine?

         Come si diceva, il discorso è rivolto ai discepoli e ogni affermazione è connessa con la promessa del regno di Dio. In un certo senso Gesù sta dicendo ai suoi che non solo il regno di Dio è là dove ci sono i poveri, gli affamati, gli assetati, gli afflitti, ma che proprio costoro, per la condizione infelice in cui si trovano, saranno i primi a beneficiare della venuta del Regno: vi appartengono già da ora «perché vostro è il regno di Dio». La promessa di felicità quindi non è data dalla condizione attuale, ma dal fatto che con la venuta del Regno tutto verrà ribaltato e i parametri che valgono oggi per definire una persona felice verranno capovolti.

         Questo tema del «ribaltamento delle sorti» è in realtà un Leitmotiv che attraversa tutta la rivelazione biblica e di cui Luca si fa portavoce, basti pensare al canto del Magnificat.

         Vivere dunque il discepolato – ricordiamo ancora una volta che il discorso è rivolto proprio ai discepoli – significa allora imparare a leggere la realtà a partire dalla sua pienezza, ovvero dall’avvento del Regno. Un avvento che è strettamente legato al riconoscimento e alla testimonianza del Figlio dell’Uomo, al Messia umano e divino annunciato da Daniele (Dn 7,13-14). Una testimonianza che implica una presa di posizione, un andare contro corrente e un mettere in conto, di conseguenza, insulti, odio e persecuzioni. Tutto questo poi, e Luca ci tiene a sottolinearlo, non è qualcosa di «nuovo», ma è in continuità con le Scritture, con la storia biblica dei profeti che, come Geremia per fare un esempio tra i tanti, sono stati disprezzati, insultati e perseguitati.

         E qui veniamo al passaggio successivo, che si trova solo in Luca ed è mancante in Matteo: tale atteggiamento di ripulsa, odio e persecuzione scaturisce proprio da quella parola profetica che anche i discepoli dovranno fare loro, una «parola» che Luca non esita a declinare nell’invettiva che segue, contraddistinta da una serie di «guai» che si contrappone proprio alla serie iniziale di «beati».

         I discepoli, dunque, dovranno non solo prendere le distanze da tutti coloro che ripongono la loro felicità nel benessere materiale, ma annunciare proprio a costoro quel «ribaltamento delle sorti» che li attende: «Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete». Non solo, ma l’autenticità del loro discepolato passa proprio da questo punto: come con una cartina al tornasole, l’autenticità della loro testimonianza e del loro messaggio si manifesta proprio nel contrario di «quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

         Autenticità, radicalità, aver chiaro da che parte stare sono i caratteri richiesti a chi vuole essere discepolo di Gesù. Caratteristiche di per sé ben definite, ma non così chiare o scontate quando si devono declinare nell’oggi della storia, perché tutto questo implica un costante e attento discernimento, una capacità di vedere la realtà al di là delle apparenze o delle visioni proposte da questa o quella «tendenza», e soprattutto una costante autocritica, che metta in guardia il discepolo/a dall’autocompiacimento, dalla ricerca di autoperfezione o dal desiderio di corrispondere a quell’«immagine» positiva che di tempo in tempo le varie correnti e movimenti pseudo-spirituali propongono, offrendo così sicurezza e salvezza.

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         E la sfida di oggi forse è proprio questa: in una cultura dell’immagine, in cui l’informazione e soprattutto la disinformazione è tutta giocata sull’«effetto» scenografico che mira a provocare giudizi immediati, più di «pancia» che di intelletto, come educare ed educarci a uno sguardo critico, attento, capace di cogliere i «giochi» menzogneri dei «falsi profeti» che ci circondano?



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