Tre anni fa ci trovavamo all’inconsapevole vigilia dell’evento che avrebbe cambiato per sempre il mondo noto a noi occidentali. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha dato il via a una scia di sangue e brutalità che mai l’Europa, pacifica da settanta anni, avrebbe immaginato di vivere. La guerra non ha portato solo scontri e combattimenti nei territori contesi, è andata pure disegnando un nuovo ordine: dai rapporti politici a quelli economici, tutto sta ora in bilico tra quello che era e quello che sta diventando.
Tre anni fa ci trovavamo all’inconsapevole vigilia dell’evento che avrebbe cambiato per sempre il mondo noto a noi occidentali. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha dato il via a una scia di sangue e brutalità che mai l’Europa, pacifica da settanta anni, avrebbe immaginato di vivere. La guerra non ha portato solo scontri e combattimenti nei territori contesi, è andata pure disegnando un nuovo ordine: dai rapporti politici a quelli economici, tutto sta ora in bilico tra quello che era e quello che sta diventando.
Se il quadro resta fumoso, certa è la mano che, oltre mille giorni dall’inizio del conflitto, sta disegnando l’agognata pace: quella del presidente degli Stati Uniti. A un mese dall’insediamento e con una tregua in Medioriente già ottenuta, Trump ha fatto le sue mosse prendendo direttamente contatti con il presidente russo Vladimir Putin. Uomo forte con uomo forte, come se il mondo fosse terra da spartire tra chi sa alzare la voce: scavalcata la vittima dell’invasione, il presidente ucraino Zelensky, e non considerata l’Unione Europea, evidentemente ritenuta presenza interlocutoria non necessaria. Incide su questo un’aria antioccidentale e antieuropea sempre più forte a cui si sommano i motivi di fastidio tanto per Trump quanto per Putin: gli americani per la questione imposte e dazi, i russi sia per il sostegno dato all’Ucraina, sia per le contromisure economiche che l’Europa ha preso contro Mosca dallo scoppio del conflitto.
Trattare il mondo come un affare personale è di per sé un fatto allarmante, se poi questo va a braccetto con la perdita del prestigio e addirittura del sentimento di necessità di interloquire in simili frangenti in consessi internazionali e sovranazionali, allora il quadro rischia il drammatico. Che mondo è quello in cui i forti decidono sulla pelle del piccolo di turno senza che un organismo terzo se ne erga a difesa e tutela? Chi potrebbe avere forza e voce per difendersi?
Non va dimenticato che, dietro al ricercato ruolo di pacificatore, Trump resta l’uomo d’affari che mira alle terre rare dell’Ucraina (debitrice verso l’America per il poderoso sostegno bellico). Anche Putin calcola la sua convenienza tra territori strappati (la Crimea ormai è russa, le zone occupate rischiano di diventarlo) e politica interna per la cui quiete necessita porre fine alla carneficina dei giovani. Punto sul quale lo stesso Trump ha fatto – saggiamente – leva fin dalla prima telefonata tra i due.
Che la Russia abbia avuto bisogno di soldati – e quindi che ne abbia persi molti dei suoi -, lo dicono le campagne di reclutamento in patria come la presenza di soldati mercenari: coreani (13mila), indiani, africani (dal Burundi, Ruanda, Zambia, Tanzania, Egitto e Libia), pagati 2500 dollari al mese e lusingati dalla promessa del futuro accesso alle università moscovite (dati dal Corriere della sera del 27 gennaio u.s.); di fatto carne da cannone come in ogni guerra accade.
Le guerre provocano sempre vittime, che restano numeri da nascondere. A novembre 2024, l’Ansa aveva parlato di 719mila morti e feriti russi sul suolo ucraino dall’inizio del conflitto (24 febbraio 2022) e di 80mila soldati ucraini morti nello stesso periodo. Cifre al ribasso, da incrementare con quelle dei tantissimi civili, vittime di paesi occupati e città bombardate. La verità emergerà col tempo, a guerra finita, a cimiteri e fosse censiti, quando con la pace le atrocità compiute emergeranno. O quando qualcuno comincerà a raccontare le storie delle persone che quei numeri rappresentano.
Lo aveva fatto, per un’altra guerra atroce come quella dell’Afghanistan, il premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksandrevic nel libro “Ragazzi di zinco”, titolo che descrive come tornarono gli oltre 14mila giovani militari russi uccisi in Afghanistan (guerra 1979-89), rientrati in casse zincate e sepolti di nascosto, la notte, perché la tragedia non si sapesse. Cifra che la storia fece poi salire a 26mila, ai quali vanno aggiunti i 54mila feriti e i 415mila ammalatisi in guerra (l’88% del contingente). Nel volume-testimonianza parlano i sopravvissuti, i mutilati, le famiglie dei caduti, le giovani infermiere tradite nella dignità professionale e umana. Sono questi, oltre ai confini e alle rivincite territoriali, i frutti di ogni guerra: morte, sangue, lacrime per chi parte e per chi resta. La colomba della pace vola sopra i cimiteri e trova voragini di assenze e odi quasi imperituri.
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