Povertà, welfare e lavoro: per otto italiani su 10 si rischia la frattura sociale

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Conto e carta

difficile da pignorare

 


di
Paolo Foschini

Disparità in crescita, ma aumenta di più la percezione.Ipsos raccoglie la loro richiesta: più collaborazione tra Stato e Terzo settore

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Con la questione del «percepito» siam sempre lì, tipo i dati sul crimine: perfino se continuano a calare come avviene ormai da anni in Italia la «percezione» è che l’insicurezza cresca. Figurarsi quando i dati invece crescono sul serio, come quelli su povertà e disparità sociali: il «tasso di crescita delle disuguaglianze» tra ceto medio e ceti bassi-popolari è oggi percepito a quota 54%. Ed è percepita come sempre più schiacciante (52%) la divaricazione tra stipendi dei manager e dei lavoratori semplici. Il tutto nel paradosso di un mondo che di ricchezza globale, anche se in mano a pochi, ne produce comunque sempre di più. E tutto torna: ogni passo di progresso economico – diceva Adorno – viene pagato con un passo di regresso sociale. Soluzioni possibili? Certo che ci sarebbero. Una che in questo caso le riassume quasi tutte si chiama «sussidiarietà». Alleanza tra Stato e Terzo settore, tra pubblico e privato in nome del bene comune: se venisse attuata davvero – è la «percezione» del 74% degli italiani – sarebbe la risposta «più efficace e mirata» ai bisogni delle persone.

È una delle conclusioni che emergono dall’indagine Ipsos Italiani, politiche sociali e sussidiarietà curata da Enzo Risso all’interno del Rapporto 2024 di Fondazione per la Sussidiarietà. Il cui presidente e fondatore Giorgio Vittadini, docente di Statistica all’Università Milano-Bicocca, sottolinea che «oggi più che mai la parola-chiave è insieme: in famiglie, in realtà sociali di quartiere, in gruppi, che però devono poter essere aiutati dal pubblico». E prosegue: «Perché le persone ti mettono sempre davanti a proposte pratiche, a soluzioni operative. Le gente lo sa cosa serve. Ma per coinvolgere il pubblico non basta andare a votare. Bisogna partecipare». La domanda è: partecipare a cosa? Cosa ne sanno gli italiani di «sussidiarietà»?




















































L’indagine aiuta parecchio a capirlo. Uno su quattro dice di sapere «più o meno» cosa sia. E a saperlo «molto bene» sono solo quattro su cento, mentre quasi uno su due (44%) dice di non averne «mai sentito parlare»: anche se è un principio previsto dalla Costituzione (art. 118). Dopodiché, quando agli italiani reciti la definizione e spieghi che quel principio «valorizza le iniziative di persone e gruppi per la realizzazione del bene comune e prevede che lo Stato le sostenga con forme diverse di collaborazione», ecco, allora la percentuale di quanti riconoscono questa cosa come «familiare» sale al 94%. Cioè: magari ci manca il lessico, ma nei fatti ce l’abbiamo nel Dna. E Vittadini lo sottolinea: «Siamo circondati da esempi. I ragazzi del Rione Sanità recuperati da padre Loffredo assieme alle catacombe, a Milano l’esperienza di Portofranco, il Banco Alimentare, Kairos di don Claudio Burgio… ce ne sono mille da raccontare: tutte risposte nate dal basso, questi sono i fili di cui è fatta l’Italia». La sussidiarietà sarebbe quella cosa attraverso cui il pubblico li prende e ne fa un tessuto. E che la gente ne «percepisca» il bisogno urgente i dati dell’indagine lo dicono eccome.

In cima alla classifica delle disuguaglianze percepite ci sono la povertà (58%), l’accesso ai servizi sanitari di qualità (44), lavoro precario e giovani (42). Con le «fratture sociali» percepite che ne conseguono: tra ricchi e poveri (87%), onesti e disonesti (83), e poi a scendere italiani e stranieri, giovani e anziani, centro e periferie. Il curatore della ricerca Enzo Risso ci mette l’accento: «La sfida cruciale per il nostro Paese è quella di ricostruire un tessuto connettivo comune fondato su principi di equità, solidarietà, riconoscimento reciproco. E la sfida di una politica responsabile è quella di impedire che differenze e contrasti sociali degenerino in conflitti distruttivi». 

La realtà fotografata dall’indagine è uno spaccato di «vita vera», come dice Vittadini: «Il 30 per cento delle famiglie dice che non trova posto nei nidi, un quarto della popolazione che non ha accesso ai servizi, l’aspettativa di vita continua a salire ma la sua qualità continua a scendere, il disagio esistenziale è avvertito in modo trasversale». Una emergenza prioritaria? «La solitudine. Perché è quella che determina l’incapacità di muoversi anche là dove le soluzioni del welfare territoriale potrebbero esserci. La solitudine è non sapere a chi rivolgersi. Perdita dei legami: origine di tutto il resto».
Eppure gli italiani, come si diceva, ce l’avrebbero ben chiara la percezione di quel che sarebbe il welfare perfetto: non tutto pubblico (per quanto il 34% dice sì), certo non tutto privato (lo vorrebbe solo il 6%), ma frutto di una «collaborazione pubblico /privato» (59%, e solo 1% di «non so»). Il che è appunto la «sussidiarietà». Welfare con il contributo delle imprese? Sì, dice l’88%. Ma con dentro il pubblico, precisa il 66: insomma un «welfare responsabile», sintetizza Risso, cioè «non una delega in bianco al privato ma una partnership orientata al bene comune».

Conto e carta

difficile da pignorare

 

20 febbraio 2025

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link