l’alleanza Russia-Usa contro la Cina farà dissolvere l’Ue

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Il Club Valdai (che continua a essere il club di discussione internazionale russo più prestigioso e non più aperto al rapporto con l’Europa dell’Ue e della Nato, com’era sino alla prima metà degli anni Dieci del nostro nuovo secolo, ma alle nazioni del cosiddetto Sud del Mondo) ha in programma il 4 e 5 marzo a Irkurtsk un incontro dedicato alla Greater Eurasia e al rapporto di questo plesso cardinale del potere mondiale – la cui definizione è stata coniata nelle cucine di Lavrov – con il Pacifico e ciò che consegue: Giappone, Cina e Antipodi.



Insomma, il tempo nuovo del confronto di potenza sui ghiacciai alti e franosi delle vette della deterrenza atomica e dei conflitti locali che la sorreggono si misurerà, da ora in poi (ossia da quando il “primo Valdai” lasciò il posto agli inventori della Greater Eurasia e alla guerra all’Ucraina e all’Ue di Putin), nelle terre siberiane, da cui si può raggiungere l’Oceano Pacifico e confrontarsi con un nuovo mondo.

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Anni e anni orsono (nel pieno del ventennio Settanta-Ottanta del Novecento), l’indimenticabile Thomas Henry Rigby (Chairman del Committee on Soviet and East European Studies dell’Australian National University) affermò che la “Siberia del Pacifico” continuava a essere il terreno di confronto di grandi potenze come la Cina, il Giappone e – dopo la Russia zarista – l’Urss. Ed era sempre stata la Russia, infatti, a segnare il passo di marcia del confronto di potenza nei secoli – a partire dal Seicento – in quelle terre e nei mari, fino a quando il Giappone, nel 1905, non ne fermò l’espansione. E non è un caso se il trattato che pose fine a quella guerra russo-giapponese fu firmato – udite udite – negli Usa.



La novità intercorsa dopo la Seconda guerra mondiale e la lotta nel Pacifico, contestualmente al conflitto europeo, era che gli Usa avrebbero dovuto riprendere il confronto con la Russia, così come ci insegnò l’opera magistrale di Paul Dibb su Siberia and the Pacific (troppo poco conosciuta ieri e oggi). Un’opera che dimostrava – grazie alla sua profetica visione che oggi trova conferma – quanto decisivo fosse il controllo tanto dell’Heartland quanto dei mari che dalle coste siberiane giungono al Pacific Rim.

L’irruzione di Trump nell’arena della nuova diplomazia circense mondiale che si sgrana sotto i nostri occhi è appunto il frutto della rilevanza che il controllo dell’Artico e della Siberia ha assunto in forme sempre più cogenti per il cosiddetto cambiamento climatico che rende possibile il transito di merci e di armi teleguidate o no dalla spazio su rotte un tempo impossibili da percorrere. Di qui la centralità della Greater Eurasia (così come definita dal Valdai), che da Kaliningrad arriva sino a Vladivostock e che dalle coste canadesi guarda alla Groenlandia, non a caso oggi sulla “bocca di tutti” grazie allo strepitare trumpiano.

E di qui il tuonare da Riyad dei negoziatori solo nordamericani e russi ai quali il patriota ucraino par excellence non si è voluto unire, così aprendo la via alla pace coreana che imporrà il tacere delle armi e la consegna della Crimea alla madre russa. Gli interrogativi sono molti: come si deciderà in merito su territori oggetto di conflitto in questo più che decennio di guerra? Molte risposte sono possibili, ma a nessuna di esse potrà cooperare per la formulazione né l’Ue, né qualsivoglia nazione europea.

Qualcosa che lascia stupefatti dopo tanti morti, tanta retorica, tanto genuino patriottismo e tanta fedeltà da vecchi credenti nell’europeismo più fervido. Un tempo che pareva non finire… e che era iniziato con la proliferazione (ricordate?) di quegli “omini verdi” che preparavano di fatto il nuovo conflitto europeo nelle terre ucraine. Il secondo conflitto dopo la guerra mondiale e che si sarebbe combattuto sotto la direzione – questa volta incontrastata – degli Usa nelle terre dell’Ue o della futura Ue. Il secondo conflitto dopo le terribili guerre etniche balcaniche, che grondano ancora sangue a pochi chilometri da Trieste e da Vienna.

Dobbiamo ricordarlo. Questo contesto segna la fine della guerra russo-ucraina in stile coreano: tacciano le armi e si prepari un accordo di grande respiro tra Russia (di fatto vincitrice) e Usa sulla costruzione di un accordo che va ben oltre l’Ucraina, lasciando l’Europa a se stessa senza una politica e una visione che non sia quella dell’anarchia del potere nazionale non unificato dai trattati e dominato dalla burocrazia celeste tecnocratica. E mentre si abbandona un continente disfatto e sfatto, si afferra con lo scettro condiviso del potere la ricerca di un’alleanza tra Russia e Usa per contenere insieme ciò che altrimenti (separatamente) non è contenibile: la Cina protesa verso Taiwan… e ciò che ne consegue.

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Un’alleanza tra alleati entrambi riluttanti, ma nondimeno inevitabile e che segnerà il futuro di potenza del mondo a venire.

Mentre l’Europa – con i salmi di Draghi e la visita inglese all’ultra-disfatto e sfatto Macron, frutti entrambi della diplomazia Usa che non veste le vesti trumpiane – scende scende piano piano come il sole all’orizzonte in un incolore tramonto.

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