Credere nella Corte penale internazionale è un atto di resistenza

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È chiaro che la giustizia penale internazionale non ha sempre saputo rispondere adeguatamente, tuttavia è un’istituzione che ha saputo effettuare scelte coraggiose anche se impopolari, come quella di incriminare capi di stato di Paesi potenti. In questo senso, la Corte ha saputo rappresentare quell’ideale di giustizia universale

Le atrocità dei crimini contro l’umanità che si dipanano in diverse parti del mondo non sconvolgono più, non solo perché percepite come lontane, ma ancor di più perché diventano quotidiane, accettata normalità, e perciò non smuovono la coscienza dei più. Deve essere questo il motivo per cui una sempre maggiore parte di mondo ha perduto di vista quella scintilla che, di fronte alle mostruosità della Seconda guerra mondiale, aveva spinto l’umanità ad unirsi nel grido del “never again”, da cui sono emerse le ragioni del multilateralismo e le regole del diritto internazionale poste a presidio dell’umanità contro crimini così indicibili. Da tali ceneri nascevano i Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda e, più tardi, la Corte penale

internazionale.

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Ma, di fronte alla crisi odierna della giustizia penale internazionale, vale chiedersi se quel “mai più” ha davvero significato qualcosa, o se, come si interrogava il giudice Chile Eboe-Osuji, è stato solamente un mantra privo di significato.

La crisi in cui versa la Corte penale internazionale rappresenta l’emblema di un sistema che tracolla, che non è più riscontro di quell’esigenza che lo aveva portato alla vita. È chiaro che la giustizia penale internazionale non ha sempre saputo rispondere adeguatamente (si pensi a Srebrenica, alla guerra in Iraq e Afghanistan, alla Siria) e spesso è stata la giustizia dei forti o dei vincitori (basti ricordare i bombardamenti della NATO in Serbia nel 1999).

La stessa Corte ha più volte prestato il fianco a critiche, specialmente per essersi per molto tempo rivolta solamente al mondo africano. Si tratta, però, di un’istituzione che – nonostante le numerose difficoltà (budget limitato, impossibilità per gli investigatori di operare sul campo in molti casi, ecc.) – ha saputo effettuare scelte coraggiose anche se impopolari, come quella di incriminare capi di stato di Paesi potenti e che ha dato contributi significativi, diventando la pietra angolare dell’architettura della giustizia penale internazionale. In questo senso, la Corte ha saputo rappresentare quell’ideale di giustizia universale che rafforza il principio del never again e lo trasforma in un impegno concreto, per cui di fronte ad atrocità di massa e all’indicibile malvagità dei crimini contro l’umanità, del genocidio e dei crimini di guerra, nessuno può rimanere impunito.

un deterrente

Non solo è divenuta simbolo, ma anche deterrente. Ciò pur operando nell’ambito della grammatica della complementarità ossia come tribunale di ultima istanza, che interviene solo quando gli Stati si dimostrano “unwilling and unable” di far fronte alla gravità degli eventi che si verificano nei loro territori. Vale, perciò, il principio per cui la giustizia domestica dovrebbe sempre prevalere, poiché esprime una maggiore vicinanza ai luoghi di commissione dei fatti, alle vittime e, quindi, propone una giustizia che possa essere percepita, a condizione, però, che di giustizia si tratti. E sebbene la Corte in questo senso sembri voler farsi da parte, essa non può accettare di essere messa da parte, poiché rappresenta il baluardo fondamentale contro l’impunità dei più gravi crimini che interessano la comunità internazionale e la volontà di non cedere il passo dinanzi ai potenti che erigono barriere politiche e costrutti giuridici per sfuggire al giudizio degli uomini e del mondo.

Oggi, la Corte dell’Aia è pesantemente sotto attacco e rischia di perdere la propria legittimità, se non addirittura il proprio posto nel mondo. Le sanzioni imposte da Trump e la crescente sfiducia della comunità internazionale potrebbero, infatti, minarne radicalmente il mandato di giustizia. Anche l’Italia, con la nota vicenda Almasri, ha scelto di voltare le spalle alle ragioni ed al significato della Corte e a quella celebre tradizione giuridica e culturale, espressa al suo massimo livello da Cassese, che ha forgiato le fondamenta della giustizia penale internazionale, abdicando così al proprio ruolo di primo piano in questa materia. Il rifiuto di firmare la dichiarazione congiunta di 79 Stati parte dello Statuto a sostegno dell’indipendenza, dell’imparzialità e dell’integrità della Corte penale internazionale di fronte alle sanzioni di Trump, esprime proprio questa preoccupante visione.

Si tratta di scelte che dimenticano i motivi e le ragioni che giustificano l’esistenza della Corte, così come le regole che ne consentono il funzionamento, provenendo, peraltro, anche dallo Stato che ha ospitato la conferenza che ha dato vita allo Statuto di Roma. A tacer del fatto che l’imposizione di sanzioni alla Corte penale internazionale rappresenta un crimine ai sensi dello Statuto, un reato contro l’amministrazione della giustizia secondo l’articolo 70, paragrafo 1, lettere d) ed e).

Ovviamente, la Corte non può conservare il proprio significato senza essere in grado di operare in modo indipendente. In tal senso, essa abbisognerebbe di uno “scudo” che, però, non può essere fornito esclusivamente da alcuni Paesi o dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – a meno che non venga riformato in modo da essere realmente funzionale – ma che deve provenire dall’intera comunità internazionale, attraverso meccanismi che, rifondando le basi del multilateralismo, propongano un sistema diverso e più efficace, poiché una Corte senza budget, oggetto di scherno e sanzioni, equivale ad una Corte che non può adempiere alla propria missione.

Tale risposta, infatti, deve provenire dall’intera comunità internazionale, intesa come unione di Stati piccoli e grandi che, come è successo per le piccole isole che hanno intrapreso la lotta per il clima, divengano attori di un sistema multilaterale di regole e diritti che elimini la possibilità di veti e nazionalismi, i quali destabilizzano e minacciano la pace e la sicurezza globale. Solo in questo modo si permetterebbe anche alla Corte penale internazionale di rimanere indipendente e di operare senza cedere alle pressioni politiche, così garantendo che crimini di tal fatta non rimangano impuniti.

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La Corte, dunque, non solo va salvata, cosicché il significato che esprime non diventi mero simulacro di giustizia, ma abbisogna di essere sostenuta e posta in condizione di operare, affinché continui a rappresentare la resistenza dell’umanità contro la minaccia del male assoluto di crimini così indicibili.

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